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"Un giorno stavo sfogliando
casualmente un periodico americano; all'improvviso venni colpito
dal volto di un uomo sconosciuto e per qualche ragione lo associai automaticamente
al russo Tatlin, il creatore dell'arte della macchina..."
R.Haussamn, 1919
Da S. Danesi, in
"Il Dadaismo", 1977
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Il tema affrontato é quello dell’identità-riconoscibilità nel progetto di design.
Ho scelto questo tema in quanto considero la identità-riconoscibilità una qualità essenziale nel mio modo di progettare e quindi caratterizzante la mia identità di progettista.
Osservando gli oggetti che mi circondano e che utilizzo quotidianamente, ho notato, soprattutto nei prodotti di design di ultima generazione, una generale e diffusa mancanza di quelle qualità che ritengo fondamentali come appunto l’identità degli oggetti stessi.
Considerando, ad esempio, "la specie" degli oggetti tecnologici ho notato la perdita del rapporto forma-funzione, la scomparsa dell'elemento simbolico, e di tutti quegli aspetti che, secondo me, caratterizzavano l'identità degli oggetti del passato; Le nuove forme, i nuovi simboli, sono sicuramente capaci di soddisfare alcune "richieste di carattere prettamente produttivo e commerciale" ma ritengo si sia perso quel rapporto "personale" che l'oggetto dovrebbe avere con colui che lo adopera quotidianamente. L'immaterialità delle nuove funzione (gestire informazioni), la necessità di identificare (a volte solo graficamente) il prodotto per distinguerlo da quelli concorrenti, la necessità di ridurre gli ingombri e la quantità di materiale utilizzato, oltre ad altre esigenze produttive e di mercato, sono tra le cause di tale "appiattimento formale ed emozionale del prodotto tecnologico"(1), con conseguente perdita dell'identità e riconoscibilità dell’oggetto come "oggetto dell'uomo" . Inoltre sebbene lo sviluppo tecnologico propone sempre nuove funzioni che ampliano le capacità (tanto fisiche quanto cognitive) dell’uomo, sono convinto che esista un limite invalicabile oltre il quale la scienza non può spingersi : uomo stesso! L’oggetto tecnologico é e deve rimanere uno "strumento per" (2) compiere meglio le proprie attività superando i limiti fisici che la natura gli impone; ma non bisogna mai dimenticare che "l’oggetto tecnologico é un mezzo e non un fine..." (2). Se é vero che l’evoluzione scientifica si sviluppa in maniera esponenziale é altrettanto vero che l’evoluzione umana ha dei tempi decisamente diversi: disponiamo di calcolatori velocissimi capaci di gestire una quantità impressionante di informazioni , il tutto ormai ridotto in dimensioni microscopiche; Ma il corpo umano, le possibilità fisiche e cognitive dell’uomo non sono mutate: non possiamo adeguare l’uomo alla macchina ma dobbiamo adeguare la macchina all'uomo! E adeguare l'oggetto all'uomo significa adeguarlo alla sua anatomia, al suo modo di muoversi, al suo modo di acquisire informazioni, ( ergonomia fisica e cognitiva), ecc.Inoltre, ancora oggi << si parla di forma e funzione senza essersi resi conto che, per moltissimi prodotti ancora ieri rispondenti a questo imperativo, oggi non esiste neppure la forma! Per portare esempi: si pensi all’infinita gamma degli elementi basati sui microprocessori, su minime lamine di silicio grandi come un’unghia, capaci di registrare, mettere in moto, ordinare, ecc. Interi meccanismi automatizzati, laboratori, fabbriche, ... o si pensi all’infinita gamma degli strumenti hi-fi: registratori, amplificatori, radio, microfoni, ecc. , ormai ridotti a scatolette nere che albergano solo qualche piccola lamina su cui sono stampati misteriosi circuiti. Dove sta la forma in questi casi? La forma non esiste più o é inventata di sana pianta e senza nessuna relazione con quanto essa "ricopre" o "nasconde" solo per dare all’utente, al compratore, un simulacro di quel contenuto morfologicamente corrispondente....>>(3)
Quindi, la presenza e la continua diffusione di oggetti la cui funzione é sempre più legata allo scambio di informazioni, impone una riflessione su ciò che un tempo aveva un senso chiamare rapporto forma/funzione. Da una parte abbiamo un "meccanismo" che costituisce il "cuore ed il cervello" dell’oggetto e la cui dimensione può essere ridotta a valori minimi; di contro l’involucro, la "scatola" che contiene tale meccanismo costituisce l’interfaccia con cui l’uomo interagisce con l’oggetto; quanto é possibile miniaturizzare l'oggetto e le sue interfacce senza perdere di vista il fatto che non possiamo ridurre l’uomo? Inoltre, in un passato non troppo lontano, gli "oggetti dell’uomo", oggetti d’uso quotidiano, esprimevano nei materiali, nelle forme, nei colori, ecc. , una forte identità : basti pensare alle associazioni tra oggetti e materiali (spade d’acciaio, case di pietra, ecc..) e nel linguaggio comune l’analogia tra oggetti e aggettivi ( affilato come un rasoio, duro come la pietra, fragile come il vetro, ecc....); Tutte queste identità ed analogie sono ancora oggi ben radicate nell'immaginario collettivo e costituiscono parte integrante della cultura materiale del nostro tempo. Per quando riguarda i materiali, in particolare, l’identità di essi si costruiva sulla base della conoscenza intesa come prevedibilità dei comportamenti, arricchita dal ripetersi nel tempo di determinate condizioni di impiego. La memoria sedimentava così sul materiale stesso certi valori culturali, che finivano per diventare anch’essi elementi della comunicazione convenzionale: veniva attribuito un nome ad un materiale ed a quel nome venivano associate le qualità che gli competevano. Nell’attribuire tali nomi veniva assegnato all’elemento in questione non solo l’insieme delle qualità empiricamente verificabili in quel momento ma anche quello che l’esperienza pregressa aveva verificato precedentemente e che il nome stesso sintetizzava.
Le materie plastiche, presentandosi sulla scena del possibile, esibendo il loro altissimo grado di artificialità e la loro mancanza di storia, hanno contribuito in modo decisivo a incrinare e poi demolire l’intero sistema di immagini e di gerarchie di valori fondati sulle qualità naturali e consolidate dalla tradizione percettiva e simbolica. Ovunque presente la plastica evoca suggestioni contraddittorie, annulla la capacità evocativa del termine, apre la strada all’ambiguità più assoluta (anche se involontaria)... Si presta con facilità a qualunque forma, imitandone spesso le qualità materiche...., sviluppando una capacità mimetica in cui la falsificazione diventa espressione "sincera" di significato.<<Lo sguardo scorre sugli oggetti della nostra esperienza quotidiana. Sono forme dotate di qualità; le qualità sono prodotte dai materiali. La memoria, l’esperienza, l’intuizione cercano di estrarre da un catalogo mentale i nomi: "legno", "ferro", "plastica"... Il nostro rapporto con il reale passa anche attraverso questa capacità di dare dei nomi: vedere, toccare, assaggiare e, alla fine riconoscere, cioè attribuire sulla base di questa esperienza soggettiva e locale dei significati più ampi, a loro volta sintetizzati in un nome. La memoria collettiva é popolata di muri di pietra, mobili di legno, materassi di lana, spade d’acciaio, corone d’oro: in questi stereotipi i nomi dei materiali appaiono carichi dei loro significati più larghi; da questi nomi l’oggetto acquista peso e spessore culturale; la pietra é la sua durata, il legno é il simbolo dello scorrere del tempo, la lana é il calore dell’intimità, l’acciaio é la forza fredda. Ogni cultura ha conosciuto simili significanti e significati del linguaggio della cose. Oggi però il filo di questa continuità sembra interrompersi: memoria, esperienza, intuizione non aiutano. Gli oggetti della più recente generazione ci appaiono sempre più spesso tali che possiamo forse dire di cosa sembrano fatti, ma non possiamo realmente dire di che cosa sono. Non é solo una questione di ignoranza di fronte al nuovo. L’impossibilità ha radici assai più profonde: nell’epoca in cui la tecno-scienza manipola l’estremamente piccolo e gestisce il grandemente complesso, alla scala delle nostre percezioni la materia non appare più come una serie di materiali dati, ma piuttosto come un continuum di possibilità. Prestazioni e qualità d’immagine sembrano combinarsi tra di loro nei modi più disparati, dando luogo a soluzioni finali inclassificabili. Ne deriva un’inevitabile tendenza alla separazione tra ciò che i materiale è (sul piano chimico-fisico) e ciò che esso sembra.>> (4)
Ecco delinearsi l’ambiguità nell’uso di materiali con l’effetto ottenuto dalla "contraffazione del significato del materiale " e dalla soggettività della percezione che recepisce più di una immagine dall’oggetto percepito.
<<Si viene così configurando in nuce una nuova maniera di stare tra le cose, una nuova forma della conoscenza del reale in cui il codice di riferimento non é più la classificazione dei materiali nelle loro proprietà e significati culturali intrinseci, ma il riconoscimento del loro livello di prestazione e delle immagini evocative cui rimandano in quanto parte integrante di un manufatto.>>(4)
Attraverso un lento accumulo di esperienze empiriche (volontarie o no) cui si sottopone un oggetto (osservandolo o manipolandolo), ma anche i materiali di cui é composto oltre che ai simboli che ostenta, si amplia la conoscenza delle possibilità di esso, possibilità, quindi, non solo prestazionali ma anche estetiche e simboliche.
Una volta interiorizzata questa serie di esperienze essa viene inglobata dalla cultura del gruppo (cultura materiale), e sedimentata. In questo processo di apprendimento collettivo si é risposto alla domanda "di che oggetto si tratta?" con una definizione operativa, implicita ma non per questo meno efficace: quell’oggetto sottoposto alla nostra osservazione si comporta, viene utilizzato, sembra, ci ricorda, ecc. qualcosa di preciso (o più cose), cioè ha certe prestazioni funzionali estetiche e simboliche note e riconoscibili. La ripetizione dell’esperienza e la possibilità di sedimentarla in una storia di lunga durata hanno poi conferito a questa risposta uno spessore particolare: nel tempo le identità degli oggetti si sono consolidate, e a queste identità é stato attribuito un nome. Nel procedimento tradizionale la constatazione empirica della relazione tra condizioni di impiego e prestazioni ha consentito di individuare delle qualità e di considerarle, da quel momento in poi, qualità note. Viceversa, una volta che una qualità viene considerata nota, riferirsi ad essa costituisce un modo sintetico per esprimere l’insieme di relazioni tra condizioni di impiego e prestazioni che la caratterizza.L'obiettivo che mi propongo di raggiungere è quello di incrementare le qualità estetiche, funzionali e simboliche di un oggetto nel rapporto che esso ha con l'uomo ( le interfacce), col fine di progettare l'identità dell'oggetto stesso.
IL METODO
"Progettare è controllare ed allo stesso tempo assecondare la dinamica evolutiva di una idea, e può essere valutato, ed operato, essenzialmente sul piano delle dinamiche di trasformazione. E' la trasformazione di una serie di eventi (richieste, idee, riferimenti) in un evento complessivo, complesso e formalizzato. E inoltre questo procedimento non può identificarsi con il suo risultato che é, necessariamente, parziale rispetto alla logica attivata. La forma finale é solamente un evento, fra gli altri che sarebbero stati possibili, collocato univocamente nello spaio ed in un punto del tempo."(C. Soddu, E. Colabella - Il progetto ambientale di morfogenesi - Progetto Leonardo 1992 Bologna)
"I progetti di specie, ed i progetti di morfogenesi che tracciano i DNA dell'artificiale, ripropongono un approccio trascendente al reale/virtuale attraverso la costruzione razionale di un immaginario soggettivo come idea/concetto progettante"(0). La qualità del progetto sarà identificata dal differenziale tra il reale ed il mondo virtuale costruito dal progettista.
Mondo virtuale che è dinamico, in continua evoluzione, dove ad ogni scelta operata corrisponde una nuova domanda. La risposta/formalizzazione a questa domanda si proporrà come nuova richiesta maggiormente sofisticata. Ad ogni scelta, quindi, si accresce la qualità e complessità del progetto, autoinnescando reazioni evolutive. "Di fatto lo strumento operativo messo a punto nella nostra ricerca, opera all'interno della differenza reale/virtuale ed evento esistente/mondo desiderato con un duplice scopo. Innanzitutto rappresentare la pluralità dei mondi possibili che vengono messi in luce dalle singole scelte, una produzione quindi di scenari virtuali derivati da ogni singola idea compositiva, che rende fattibile la valutazione qualitativa del processo compositivo in atto; in secondo luogo una rappresentazione concreta della dinamica evolutiva dell'idea progettuale attraverso il continuo incremento di complessità dei mondi virtuali rappresentati."(0)
Questa "sfida" nei confronti della complessità si combatte soprattutto sul campo della capacità adattiva del progetto anche all'inaspettato, alla capacità di risposte multiple, imprevedibili ed intersoggettive, cioè verso una forma "aperta". Inizialmente il nostro sistema è in equilibrio, mentre la condizione propria del progetto è di disequilibrio, dinamicità, evoluzione. Abbiamo bisogno quindi di innescare una reazione capace di rompere il nostro sistema in equilibrio. Ciò è possibile grazie al catalizzatore, che non necessariamente entra in gioco direttamente nei processi di trasformazione che attiva, ma permette, grazie alla casualità che ha portato alla sua scelta e alla lettura soggettiva del contesto, ai reagenti (i riferimenti, le esigenze di base, l'immaginario soggettivo, la struttura organizzata di regole e procedure) di attivare la progettazione e segna così l'inizio del tempo progettuale. Per me, l'innesco della progettazione è stata possibile grazie all'interpretazione soggettiva del tema della riconoscibilità e alla costruzione dell'immaginario di riferimento atto a soddisfare le richieste degli obiettivi di qualità scelti inizialmente (Riconoscibilità-identità, adattività, ambiguità). Grazie alla lettura soggettiva dell'immaginario di riferimento ho effettuato delle adduzioni, ossia ho addotto delle leggi di trasformazione, delle procedure, sempre allo scopo di soddisfare gli obiettivi prefissati. Il passo successivo è stato quello di organizzare le regole e le procedure addotte in un paradigma organizzativo come prima ipotesi di possibili "codici di riconoscibilità".
L'ultima fase del percorso progettuale prevede, naturalmente, la realizzazione di scenari "virtuali". Tali scenari sono la rappresentazione di alcune ipotesi tra le innumerevoli possibili, e sono stati "verificati" per accertare il raggiungimento degli obiettivi di qualità ed il rispetto delle procedure prodotte.
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