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La Cronaca

Il Messaggero, 1 Maggio 1987

Parlano i testimoni di quel giorno di sangue che ha segnato la storia

 

Cristina La Rocca, aveva 9 anni, quel 1 Maggio ’47, quando salì anche lei con il padre contadino alla Portella della Ginestra, su in alto a mille metri sopra il suo paese di San Cipirello.

"Eravamo in tanti, una festa. Sul palco, un signore aveva appena cominciato a parlare, quando si mise a piovere: pallottole.

Una mi prese qui, tra il rene e il polmone"; Cristina ha capelli biondi e occhi chiari. E’ figlia di questa terra, ma il sangue normanno scorre con evidenza nelle sue vene.

Alla vigilia del 1 Maggio nelle scuole elementari del paese, racconta a 113 studenti la sua storia che si intrecciò per caso a quella ben più grande del bandito Giuliano.

"Eravamo braccianti poveri, morti di fame, eravamo lì con le bandiere rosse che volevano dire occupazione delle terre, e qualcuno dall’alto, qualcuno senza volto, ci sparò, ci massacrò".

A Cristina, quella stessa mattina di sangue, diedero l’estrema unzione.

Altri undici, uomini, donne, bambini, non si rialzarono: restarono tra quelle pietre, su quell’erba di primavera.

Altre ventisei persone furono portate via da familiari e amici, ferite: i racconti si accavallano e descrivono carri, muli, biciclette, auto, camion carichi di gente disperata, in fuga verso valle coi suoi morti, i suoi feriti.

Ci fu reazione immediata?

Mariano Belfiore, oggi cinquantenne e segretario della locale Camera del lavoro racconta: "Io venivo su da Piana degli Albanesi; i primi a venirci incontro erano uomini fatti che gridavano "andiamo a prendere le armi e inseguiamoli".

Antonio Nania, che allora aveva nove anni, dice:

 

"A noi sembravano mortaretti, fuochi d’artificio, giochi di festa. Solo dopo vedemmo e capimmo".

Capirono, tutti capirono. Che cosa?

"Che era toccato al bandito Salvatore Giuliano eseguire gli ordini decisi dai latifondisti e trasmessi dalla mafia: dare un segnale, dare un esempio.

Che le occupazioni delle terre non erano tollerabili, che braccianti e contadini non potevano e non dovevano alzare la testa": Gioacchino Nenia è ingegnere , consigliere comunale in queste valli, indipendente ora e prima democristiano. Quindi, non comunista: "Ma è così, dice, sulla matrice agraria e mafiosa della strage di Portella non c’è dubbio, anche i processi di Viterbo e Roma che ricostruirono i fatti, anche la polizia e i carabinieri, allora lo dissero subito".

A controprova di quel che afferma, davanti agli occhi assetati di curiosità dei 113 alunni delle elementari, gira tra le mani il libro di Lucio Galluzzo, Meglio Morto, dove la storia di Giuliano è ricostruita per filo e per segno.

Però è inutile nasconderlo, anche qui la storia si ripete, anche per questi 113 bambini e bambine, Salvatore Giuliano resta un mito.

Del resto non era lui il Robin Hood della Sicilia?

Pasquale Sciortino, cognato di Giuliano, che sposò la sorella Mariannina, dice di persona, e nei suoi libri di memorie: "A Portella quella micidiale raffica scappò per caso, lui non voleva uccidere la sua gente".

Ma testimonianze e ricostruzioni della polizia , di magistrati, e di storici, inchiodano Turiddu.

Allora perché Giuliano uccise?

Per l'amnistia per i suoi delitti e per tutti gli uomini della sua banda?

E chi gli prometteva l’amnistia?

Questo resta il mistero: un buco nero contenuto nella missiva che il bandito ricevette, tra il 27 e 28 Aprile nella fattoria dei fratelli Genovese, in contrada Saraceno.

Giuliano lesse quegli ordini e disse: "è venuta l’ora della liberazione, il primo maggio andremo a sparare ai comunisti a Portella delle Ginestre".