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LIBRO

METODOLOGIA

PROGETTUALE

"Il progetto ambientale di Morfogenesi (C.Soddu, E. Colabella).


"Questa intercambiabilità non deve quindi essere valutata come indifferenza fra le varie opzioni. Una forma può essere intercambiabile con un’altra nel momento della scelta. Ma ogni scelta, una volta accettata, viene ad essere irreversibile, e caratterizza univocamente e necessariamente l’individuo, una storia fra le tante possibili storie, ma, in quanto storia, irreversibile.

La consapevolezza (anche operativa) di questa distinzione tra la scelta fra forme ed il modo compositivo è parte essenziale della storia culturale più recente. Si è esplicitata proprio nel Movimento Moderno, ed anzi ne è stata uno dei presupposti. Il movimento Moderno ha infatti assunto, in architettura e nel design, un approccio teso a valutare come gerarchicamente più pregnante e significativo il processo progettuale da attivare, che non le singole uscite formali. E molto spesso anche andando oltre, ed illudendosi forse, di poter ridimensionare il ruolo delle decorazioni in quanto forme non direttamente connesse alla scelta progettuale. Ne è derivata una carica di assiomaticità nell’approccio logico al progetto, ed una perdita teorica della complessità intesa come risonanza, compresenza simultanea, dello stesso progetto, di logiche differenti.

Ciò ha intaccato considerevolmente non la caratterizzazione come specie (l’identità della città moderna è fortissima) ma la caratterizzazione dei singoli individui.(Le città moderne, frutto di quella deviante del Movimento Moderno che è l’International Style, tendono ad una perdita di immagine, ad una omologazione che viene sentita dagli utenti come mancanza di capacità di caratterizzazione, di risposta a specifici e diversificati bisogni umani di identificazione). L’aver operato con forme diverse (che nel caso del moderno ricercavano una oggettiva essenzialità, ma erano comunque intercambiabili), e soprattutto con approcci logici univocamente voluti ed idealizzati, ha comportato, (comunque si valuti questo approccio forte), la rivalutazione di un campo ontologico compositivo. Questo campo, così costruito, doveva necessariamente prescindere dalle indicazioni di necessità di specifiche forme, così come venivano utilizzate precedentemente, e codificate accademicamente, per raggiungere gli obiettivi prefissati di qualità ambientale.

La scelta del Movimento Moderno (ed in genere di tutte le avanguardie dell’inizio del secolo) di abbattere l’accademismo di specifiche forme e decorazioni, per il raggiungimento della "qualità", si è tradotto in un tentativo di spostamento, irreversibile ed estremamente produttivo sul piano culturale, del campo del progettare dal progetto al metaprogetto (oggi si direbbe, alla luce degli approcci sperimentali attuati, dalle forme alla logica formale).

I tentativi attuati dagli anni ’50 in poi di metaprogettualità hanno posto le basi per il progetto di specie.

Ma con una differenza essenziale. Mentre il metaprogetto era la ricerca di un approccio globale, oggettivo, alla qualità ambientale, il progetto di specie è un metaprogetto soggettivo, cioè un progetto che mette in luce, definisce e controlla le procedure soggettive di approccio alla complessità. Avendo come obiettivo la capacità di risposta dell’ambiente costruito alle esigenza intersoggettive dell’uomo. L’oggettività/ottimizzazione delle soluzioni (mai dell’approccio) è solo plausibile e probabile.

Nelle avanguardie storiche del novecento, per attivare la supremazia della logica compositiva sulle singole scelte di formalizzazione, si è cercato sostegno e sinergie nelle esperienze che, parallelamente, erano portate avanti negli altri campi scientifici. Anzi, è probabile che le volute sinergie con la ricerca scientifica, che all’inizio del secolo non era ancora del tutto consapevole della necessità di operare sulla complessità, ma era ancora tesa alla ricerca della coerenza totale ed unificante, abbia innescato un processo deviante favorendo la crescita, parallela, di un’immagine riduttiva del progettare. In nome del determinismo ancora imperante in alcuni settori scientifici, viene esaltata la coerenza intesa come categoricità dell’approccio, che viene oggettivato, e conseguentemente richiede la "necessità" ed "unicità" di ogni scelta formale. L’approccio funzionalista, anche se criticato aspramente all’interno delle stesse avanguardie, trova una sua consacrazione nella professione. La crepa di questa costruzione logica volutamente e caparbiamente adamantina, è data dal fatto che la necessità della forma, il rapporto causa/effetto tra richieste e forme, nelle operazioni progettuali reali, viene sempre rivalutata a posteriori. E non può essere altrimenti in quanto non può essere realisticamente attivato un processo induttivo/deduttivo, o comunque deterministico, tra richiesta e forma. E’ una semplice questione di quantità: il campo di pertinenza delle forme supera sempre quello delle richieste non formalizzate. Il secondo non può comprendere, e quindi definire univocamente il primo.

Questo atteggiamento fuorviante verso il progetto ha contaminato irreversibilmente le nostre città. Si è infatti diffuso, rapidamente e tenacemente, un approccio basato sulla giustificazione a posteriori di ogni scelta come ricostruzione di una logica deduttiva pregressa. Giustificazione che, operata in termini deterministici, riduce perché non riconducibile ai parametri utilizzati, sia la qualità totale che lo stesso campo di contrattabilità dei requisiti ambientali connessi all’immagine. Gli obiettivi da raggiungere, infatti, venivano, e molto spesso vengono tuttora, individuati e programmati solo se sono riconducibili agevolmente a dati quantificabili. La qualità dell’immagine ambientale non è, in questo ambito operativo, contrattabile e quindi viene esclusa dallo stesso programma.

Questo diffuso approccio riduttivo al progettare si basa su un atto di presunzione ingiustificabile. Vengono definite, in modo velleitario ed artificioso, delle corrispondenze necessarie e biunivoche tra forme e funzioni, quando oggi appare chiaro a tutti che questa corrispondenza non è né necessaria né tantomeno biunivoca. Se una corrispondenza può esistere, essa varia dal campo del soggettivo a quello del casuale. E questo variare cresce se, come è necessario, riportiamo il progetto nella sua specifica dimensione temporale, come parte integrante del divenire dell’ambiente che noi viviamo.

L’architettura, così come tutto il progettare, dalla città all’oggetto, ha un denominatore comune. Opera strutturando delle risposte complesse a delle domande conosciute solo parzialmente. Come può un progettista sapere ciò che ogni possibile utilizzatore, ogni uomo chiederà all’ambiente/oggetto artificiale (dal piano estetico a quello strettamente funzionale)? Ogni uomo infatti, è un individuo diverso, con la propria soggettività. Inoltre è probabile che appartenga ad un momento storico e culturale differente, anche temporalmente, dal contesto di riferimento del progettista (le architetture, così come gli oggetti, sono fatte anche per durare, e comunque per esistere al di là del tempo del progetto, la loro durata è sempre "lunga" in relazione al rapido evolversi dei bisogni).

Ma il Pantheon, oltre ad essere un repertorio storico, è amcora capace di rispondere ai nostri bisogni, identificandosi come spazio eterno, senza tempo. La Rotonda del Palladio è ancora una villa che risponde all’immaginario collettivo. Come hanno fatto questi progettisti a saper rispondere ai bisogni dell’uomo contemporaneo, così diverso, imprevedibile agli occhi di un architetto di secoli fa?

Prescindendo dalla ricerca di "immutabili" che riproporrebbero, comunque, chiavi di lettura oggettivanti e tese alla riproposta della verità, e quindi all’astrazione decontestualizzante cartesiana, quale potrebbe essere la chiave di questo ininterrotto successo di pubblico? E’ possibile nel progetto controllare e valutare a priori la procedura logica che porta al concretizzarsi di eventi la cui "necessità" sarà ancora condivisa a distanza di secoli (o di minuti)?

Ogni scelta di formalizzazione nasce dalla soggettività del progettista e si esplicita attraverso riferimenti più o meno colti, storici e/o di moda. In ogni caso travalica, senza eccezioni anche nei casi più "semplici", il campo di pertinenza dei bisogni che l’hanno generata. Questo significa che se anche il progettista si pone in maniera determinata all’interno di un approccio consequenziale, e giustifica a posteriori ogni suo atto di formalizzazione come necessario al raggiungimento dello scopo, di fatto tutto ciò è artificioso in quanto sarà sempre possibile trovare non una, ma infinite soluzioni formali che rispondano altrettanto bene ed in modo pertinente ai bisogni espressi a giustificazione della scelta. In pratica è sempre possibile negare qualsiasi "necessità" pregressa riguardo le singole scelte.

Se questa pratica di giustificazione a posteriori è propria di una deviante consuetudine professionale, la chiave dell’approccio teorico originale del Movimento Moderno è estremamente differente. Già l’esperienza cubista proponeva la pluralità delle forme, o meglio della loro simultanea temporalità, e tentava una rappresentazione parallela di un’universo intercambiabile di possibili evoluzioni formali/temporali. E questa esperienza è stata uno dei riferimenti formativi, quando non anche un riferimento formale esplicito, dell’architettura degli anni venti e trenta. In queste esperienze cubiste si tendeva già, in modo determinato, ad una rappresentazione dinamica della quarta dimensione, e quindi a quello che, oggi, è il progetto di specie: controllo logico-formale, morfogenetico, delle trasformazioni possibili della forma.

Del resto questo approccio non era nemmeno nuovo, direi anzi che è sempre stato una costante, anche se non esplicita, dell’operare artistico. Oggi, infatti, possiamo fare una lettura di alcune opere d’arte appartenenti a momenti culturali estremamente differenti, che mette in luce una componente del fare artistico tendente a concentrare in una rappresentazione non solo una molteplicità di sfaccettature parallele di significato, ma anche la storia dell’evoluzione formale in una temporalità possibile. Ad esempio, è possibile leggere questa stratificazione simultanea di possibili letture temporali anche in dipinti trecenteschi e quattrocenteschi nei quali gli avvenimenti raccontati, ed il contesto stesso, tramite deformazioni dimensionali e prospettiche dell’immagine, ripropongono percorsi e temporalizzazioni possibili. Nell’architettura comtemporanea questa potenzialità è esplosa, se non altro come richiesta di tendenza, in quanto l’architettura è sempre stata uno degli specchi della società, e la società, oggi, è complessa e stratificata, ipercomunicativa e multimediale. Abbandonando i riferimenti di tipo categorico alla verità, con la crisi dell’ideologia, fa propria la stessa intercambiabilità delle forme. Dopo le esperienze high tech degli anni settanta e quelle postmoderne degli anni ottanta, architettura e design ritrovano un terreno fertile in questo tipo di approccio teorico/sperimentale. Da una parte si tende a sviluppare l’approccio compositivo alla complessità, confrontandolo con il simultaneo sviluppo della ricerca scientifica, e ritrovando nuove sinergie; dall’altra è possibile trovare, nella perdita di credibilità di assunti metodologico/compositivi riproponenti l’ideologia della coerenza, la necessità e l’urgenza di ridefinire il campo ontologico del progetto.

Questi temi caratterizzano il dibattito, tuttora in corso, tra moderni, veteromoderni nostalgici, postmoderni e neomoderni. Rilanciando spesso argomenti che non valutano appieno la ridefinizione in atto del campo ontologico di pertinenza delle stesse discipline compositive.

Da una parte permane infatti, deviante e falsamente nostalgica, la difesa ad oltranza della necessità di ogni singola scelta di formalizzazione compiuta nel progetto, agganciando pretestuosamente a questo presupposto, operativamente inaccettabile ma conttrattualmente inconfutabile, la stessa dignità del progettare.

Il principio di dignità a cui quest’approccio si riferisce è, oltre che ovviamente accettabile, la base stessa della progettazione. L’equiparazione tra dignità del progettare e controllo logico del progetto è, infatti, un punto di riferimento essenziale. La distorsione risiede sul tipo di controllo logico attivato: la sequenza "necessaria" tra richiesta e forma. I difensori di quest’approccio basano le loro argomentazioni su di un presupposto: l’impossibilità di rendere credibile, ed attuabile, un approccio diverso, che sia controllabile (e quindi realmente e degnamente progettuale), e che operi direttamente, ed in progress, sulla frantumazione e sull’intercambiabilità della forma. Invece ciò è possibile, e la sperimentazione che abbiamo attuato ne è una possibile dimostrazione.

E’ possibile operare con una dignità progettuale, quindi attivando strumenti di controllo pertinenti ed adeguati, sulla intercambiabilità delle forme in una crescita ed evoluzione dinamica delle scelte, della complessità, della qualità come avvicinamento progressivo ad un immaginario di riferimento, anch’esso in evoluzione. Quest’approccio alla progettazione è, non solo possibile (ed in sinergia con la rivoluzione parallela nella ricerca scientifica) ma necessario per ricalibrare e ridare nuova dignità allo stesso lavoro dell’architetto. L’obiettivo degli anni novanta no può essere che il ritrovare la dignità del progetto (e quindi dell’ambiente, dell’architettura, dell’oggetto d’uso, della città) nella capacità di controllo logico-formale delle trasformazioni progettuali e temporali, individuando obiettivi la cui qualità trascenda, senza negare, il contingente, il soggettivo ed il casuale.

In altre parole è operare progettualmente sul codice genetico formale, sul DNA della forma (architettonica, urbana o dell’oggetto industriale) nella consapevolezza che l’intercambiabilità degli individui/forma all’interno di specie, e la temporalità simulata del processo, non toglieranno niente alla qualità compositiva dell’ambiente progettato. Tale qualità vivrà, e risponderà alle richieste anche imprevedibili dell’uomo, attraverso l’adattività propria di ciò che nasce dal non equilibrio, dal controllo della stessa dinamica evolutiva che sottende l’ambiente in cui viviamo.

In contrapposizione all’atteggiamento funzionalista/deviante, le architetture degli anni ottenuta, gli oggetti postmoderni, pur lavorando sulla intercambiabilità delle forme, ed in linea con reali aspettative della società contemporanea, non hanno prodotto una sistematica e sufficiente revisione/evoluzione del processo compositivo e del campo disciplinare relativo. Molte di queste esperienze sono state, per questa ragione, facile preda di atteggiamenti critici ispirati superficialmente all’esperienza modernista. Critiche che contestano il recupero di stilemi e forme del patrimonio storico dell’architettura, in quanto tale recupero non sarebbe consapevole, frutto di un approccio colto, ma superficiale e/o casuale.

Una critica che può essere condivisa, a patto di definire quello che deve essere considerato, per un progettista, un approccio pertinente ai propri riferimenti. Esso non è solo certamente un approccio orientato alla ricerca storica, all’interno di acquisizioni e valutazioni critico/analitiche che prescindono dal reale campo di pertinenza della composizione/scoperta. Per un progettista l’approccio deve essere basato sulla consapevolezza che la progettazione è la gestione del contingente e del casuale; che la creatività è saper inserire nel campo progettuale la propria soggettività ed incoerenza come catalizzatore di processi evolutivi che non possono, e non devono necessariamente essere previsti, ma rispetto ai quali occorre attivare la propria coerenza logica, che non è una coerenza tout court, definita staticamente come fermezza verso ogni possibile contraddizione e multilateralità, ma un divenire dei modi per trasformare la realtà verso l’immaginario di riferimento, anch’esso in evoluzione. Coerenza come mantenimento della tensione all’avvicinamento progressivo della realtà virtuale del progetto all’ immaginario che ne misura la qualità.

Se il recupero di forme "storiche" operato nelle architetture degli anni ottanta può essere giudicato casuale, banale ed acritico, questa valutazione negativa non può basarsi solo sulla considerazione che la storia viene utilizzata come un deposito/catalogo. In realtà un deposito/catalogo siffatto non solo non esiste, ma non può esistere.

Ognuno di noi attinge (e la critica al concetto di storia dibattuto in questi anni ce lo conferma) ad una propria, soggettiva rappresentazione della storia dell’architettura. Una rappresentazione, quindi, che non è un catalogo ma, comunque venga attuata, un soggettivo affiorare nella contemporaneità di matrici formali. Un ridisegno e risignificazione di eventi formali la cui trasformazione semantica e funzionale è incontrollabile a priori e si evolve nel tempo soggettivo del progettare.

E se questa lettura può, da un punto di vista di una disciplina diversa, essere considerata casuale e contingente, ciò non toglie che forse è anche possibile che sia, proprio per queste peculiarità, più consona di altre alla progettazione. Il che significa più rispondente alle necessità di stimolare la crescita del progetto, strutturando sempre nuovi, incoerenti ed imprevedibili punti di vista capaci di catalizzare la crescita di complessità dell’architettura, dell’ambiente che si sta tracciando, e soggettive richieste che le verranno poste. Ciò, comunque, non vuole e non deve essere una giustificazione a posteriori di semplificazioni riduttive dello spessore compositivo e della stessa qualità progettuale. Una qualità che può anche prescindere dai riferimenti formali utilizzati, ma non può non presupporre un consapevole approccio logico.

Se, infatti, vogliamo riformulare una critica a certi approcci compositivi contemporanei che appaiono acritici e superficiali, dobbiamo riferirci non certo al recupero soggettivo di un patrimonio formale, ma alla possibile latitanza nel ricondurre questo operare all’interno di un controllo logico non analitico ma realmente "progettuale". Se infatti si tenta, in mancanza di un approccio logico "alternativo", di coniugare l’approccio progettuale oggettivista/funzionalista codificato dall’international style con le istanza della società contemporanea, ci si trova nell’impossibilità di procedere. Gli assunti teorici propri della devianza pseudomoderna, la categoricità delle scelte, la necessità del gesto e la coerenza deterministica, non possono infatti convivere con il tentativo di raggiungere la complessità, la caratterizzazione e l’intercambiabilità delle forme propria dell’immagine/ambiente contemporaneo e dei suoi referenti di qualità.

Se questa commistione viene tentata, il risultato è segnato dalla inevitabile necessità di operare semplificazioni tali da incidere riduttivamente nella qualità ambientale.

Se si intende raggiungere la capacità di risposta complessiva che il mondo contemporaneo chiede all’ambiente, sia naturale che artificiale, l’operazione da attivare è molto più complessa, e non è certamente solo legata a peculiari aspetti problematici oggettivati ed ottimizzati, od ad immagini di riferimento che possono essere poste, occasionalmente, come obiettivo da raggiungere.

E’ questa un’operazione che deve mettere in gioco non solo alcuni principi teorico/operativi consolidati e sclerotizzati da decenni di pratica professionale funzionalista, ma lo stesso campo ontologico proprio della disciplina della composizione.

Innanzitutto è indispensabile fare chiarezza su quello che significa, dal punto di vista progettuale, la coerenza e l’intercambiabilità della forma. Nel processo compositivo può significare operare una distinzione, scindere nella formalizzazione progettuale, tra ciò che è l’indispensabile apporto soggettivo di forma/risposta, che persegue la caratterizzazione di immagine ed il raggiungimento di un immaginario di riferimento, ed il margine "necessario" della stessa risposta, che si limita alla capacità adattiva della forma prodotta di comprendere anche una risposta alla richiesta. E questo a tutte le scale alle quali si operano progettualmente delle scelte di formalizzazione in risposta ai bisogni.

Ciò porta alla necessità di individuare il reale apporto alla complessità ed alla riconoscibilità/caratterizzazione dell’oggetto progettato delle due componenti essenziali del processo progettuale: le forme e i processi morfogenetici attivati.

Le forme, scelte soggettivamente e/o casualmente, possono essere intercambiabili, e queste alternative pregresse, una volta che le scelte divengono irreversibili, agiranno, come surplus di informazione, sulla caratterizzazione individuale. Al contrario i processi morfogenetici, quando vengono modificati, intaccano direttamente la riconoscibilità non dell’individuo, ma della specie. Quindi influenzano direttamente la riconoscibilità della paternità compositiva e culturale dell’opera.

Intercambiabilità delle forme e variazione dei procedimenti morfogenetici sono le due chiavi attraverso le quali è possibile attivare simultaneità progettuali fra sfera individuale e specie. Non è un caso che oggi si riscopra il gusto e l’interesse culturale per un meccanismo che è stato, almeno in parte, in disuso per qualche decennio: la decorazione come sovrapposizione alle varie scale, di strutture significanti non correlate ma spesso imprevedibili una rispetto all’altra.

Se, operativamente, la diversificazione "individuale" è problematica (non esistono più gli artigiani dell’edilizia, la produzione è ancora quella di oggetti in serie tutti uguali, la produzione di oggetti, come gli orologi "swatch", diversificati e colorati è ancora un fatto sporadico e realizzato in modo ibrido), la necessità contemporanea di ritrovarla nel progetto persiste.

Di fatto, operando un salto di scala, il tentativo postmoderno è quello di riproporre la stratificazione di significati e l’intercambiabilità propria degli elementi di un’architettura storica decorata (il capitello lo può realizzare qualsiasi artigiano, purché bravo, ma la qualità architettonica, come qualità compositiva non cambia). Questo utilizzando l’intercambiabilità dei riferimenti, attivata anche casualmente come simulazione della molteplicità del soggettivo.

Si tratta però, sempre e solo, di tentativi di simulare una complessità con autonomia alle varie scale, utilizzando un approccio riduttivo, se non addirittura non pertinente. Questa autonomia alle varie scale, infatti, deve essere controllata sul piano della costruzione/frantumazione dell’immagine, su quello della caratterizzazione e diversificazione specie/individuo, sulla reale dinamica di avvicinamento alla complessità propria di ogni processo evolutivo.

Comunque tutto ciò racconta come appaia inderogabile un approccio che espliciti, e metta in gioco, alcune richieste che ridefiniscano i rapporti ambiente/uomo e soggettivo/sociale. L’obiettivo che si va definendo, e che tendenzialmente quest’esperienze contemporanee intendono raggiungere è quello, non solo di un’autonomia del progetto alle varie scale, ed all’interno di queste una possibile intercambiabilità delle forme, ma anche, e simultaneamente, il raggiungimento di una identità progettuale dell’artificiale che garantisca, comunque, la riconoscibilità della matrice compositiva, e quindi identifichi il genius loci, la specie di oggetti.

Se questo è l’obiettivo, e lo si vuole perseguire individuando un approccio logico operabile globalmente, è necessario traslare l’operazione progettuale dalle singole forme alla specie di forme. E’ necessario intraprendere il progetto della specie.

Un esempio molto dibattuto: il borgo medievale. Sull’architetto (ma soprattutto sull’uomo contemporaneo come utilizzatore sempre più smaliziato dello spazio costruito) la città medievale esercita un fascino molto particolare, perché non è facilmente identificabile con eventi specifici. E non deriva certamente dalla "mancanza di razionalità" o scientificità, come alcuni vorrebbero far credere proponendo una generalizzata deregulation. Anzi, per altri versi, questa possibile mancanza può essere un deterrente all’apprezzamento.

Il fascino deriva essenzialmente dal carattere della specie. Il borgo medievale può essere letto, ed apprezzato, a prescindere dai singoli edifici che lo compongono (alcuni edifici brutti, malamente restaurati o nuovi non incidono fortemente sulla capacità di affascinamento). Ad un’altra scala, il fascino dei singoli edifici può essere valutato anche non considerando le membrature architettoniche o i dettagli. L’aspetto che più intriga il contemporaneo è che questa capacità di fascinamento si esplicita, nella città medievale, senza proporre un carattere organizzatore forte, ma solo una forte caratterizzazione delle matrici genetiche. Cioè senza ricorrere ad un’idea complessiva che strutturi e renda riconoscibile la città tramite gesti categorici ed espliciti, come allineamenti, gerarchie e dimensioni, ma attraverso l’ambiguità ed imprevedibilità di un codice genetico.

La città medievale è infatti, per certi versi simultaneamente spontanea ed incontrollata. Quindi "razionale" come capacità di controllo ed indirizzamento del casuale. Ogni elemento ha una sua caratterizzazione individuale, ma la presenza di diversità non nega, ma contribuisce a formare ed amplificare il carattere, la riconoscibilità di immagine di città medievale.

Come nella natura, logica e sorprendente la tempo stesso. Come in un bosco, dove il proliferare dei singoli individui (gli alberi, gli arbusti, i fiori, etc.) ed il loro trasformarsi nel tempo non distruggono, ma anzi amplificano la caratterizzazione dell’insieme, la riconoscibilità di un genius loci dell’immagine specifica di quel particolare luogo che, con queste trasformazioni imprevedibili (ed intercambiabili) acquista, e non perde, identità.

Un ulivo diventa più "ulivo" e, simultaneamente più individuo-ulivo, quanto più è strapazzato dal vento, quanto più diventano inusuali, contorti e sorprendenti i suoi rami. Cioè quanto più si diversifica esplicitando la sua forte struttura genetica.

Ed un uliveto è più riconoscibile come uliveto quanto più i suoi individui componenti hanno acquisito diversità.

Se noi volessimo accedere compositivamente a questi risultati, è impensabile operare progettualmente secondo sequenze di "necessarietà" su ogni ramo. E’ molto più pertinente (e corretto, nonché dignitoso) progettare l’ulivo come specie, definendone non i singoli elementi, ma la struttura morfogenetica.

Ritroveremo così, ad un’altra scala, la progettualità e la "razionalità" che abbiamo superficialmente considerato assente nel borgo medievale. Una progettualità intesa come capacità di rapportare operativamente la realtà ad un immaginario di riferimento, anche complesso ma indubbiamente pieno di fascino, che si esplicita e si ridefinisce in un’evoluzione progressiva, come immaginario collettivo.

Il progetto di morfogenesi è questo: rispondere alle richieste, ai bisogni contingenti (ma anche futuribili ed imprevedibili), culturali, di immagine, etc., non attraverso un evento formale unico e categorico, basato su velleità di scelta "necessaria", ma con la progettazione di una specie di eventi, di un codice genetico. Una specie di eventi formalizzati più pertinenti ai bisogni in quanto capaci di adattività. All’interno della specie ogni evento è intercambiabile con l’altro sino a quando non viene scelto, diviene irreversibile; cioè sino a quando il progetto non sia cresciuto, e la forma adottata (fra le altre possibili), non sia stata utilizzata come risposta al bisogno di identità individuale, ma all’interno di una logica di controllo del contingente/casuale capace di caratterizzare, e rivalutare dinamicamente la qualità anche di immagine dell’ambiente. L’evoluzione della specie (ed in parallelo della complessità ambientale) non frantuma la riconoscibilità dell’ambiente, non omologa la sua immagine sulla base di standard precostituiti di ottimizzazione, ma, amplificando le potenzialità endogene, diviene supporto essenziale, così come storicamente è sempre stato, per l’incremento di identità, il mantenimento dinamico del genius loci." (C.Soddu-E.Colabella "Il progetto Ambientale di Morfogenesi").

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