Cenni storici sull'automobile utilitaria
In questo paragrafo ho raccolto alcuni articoli che commentano la presentazione sul mercato italiano dei modelli di automobile citati nell' immaginario di riferimento.
Le recensioni sono spesso molto critiche nei confronti di queste vetture alle quali si rimproverava l' aspetto spartano di un mezzo creato solo per essere pratico.
In realtà modelli come la Fiat "500" hanno saputo superare i gusti della loro generazione , tracciando nuove vie di sviluppo e contribuendo per una buona parte alla formazione dell' identità delle automobili utilitarie.
Per questo è interessante notare come appaiano più lungimiranti le idee che hanno prodotto queste vetture , piuttosto che gli articoli che le hanno accompagnate.
Tratto dalla "Prova su strada" della Fiat "Nuova 500" pubblicata sul numero di Luglio del 1957 sulla rivista "Quattroruote"
"Quando si voglia esaminare l'estetica di una vettura come la "Nuova 500" , bisogna tener presente che per l'automobile il problema di conciliare le esigenze estetiche con quelle funzionali è di ardua soluzione , ed impone inevitabili compromessi , maggiori quanto più ridotte sono le dimensioni della macchina.
Con piccole vetture lo stilista si trova particolarmente vincolato dalle esigenze imposte dalla abitabilità , così è avvenuto con la "nuova 500" nella quale abbiamo un abitacolo sufficiente per due persone , e due posti di fortuna , con dimensioni esterne inferiori a quelle delle precedenti "Topolino" e "600" : fattori che hanno concorso a conferire alla macchina minore slancio in linea.
L' aspetto di quest' ultima utilitaria Fiat è ispirato a quello della "600" , salvo alcuni particolari .
In compenso è meno slanciata , specie nel retrovettura ; la parte anteriore ha invece una sua eleganza.
Comunque il nostro giudizio finale è che , ribadite le premesse della vettura utilitaria e della esigenza di abitabilità , si tratta di una linea , migliorabile sì , posteriormente , ma in complesso accettabile."
Tratto dalla rubrica "Le nostre prove su strada : la Citroen "2CV" " pubblicato sul numero di Agosto del 1956
"La "2CV" rappresenta senza dubbio uno dei più interessanti ed attuali esempi di autovettura europea utilitaria , specialmente per il suo basso costo d' eserrcizio accompagnato da una comoda e ragionevole abitabilità , offerta a quattro persone e relativo bagaglio.
La sua parte meccanica è intelligente e soddisfacentemente funzionale.
Molto meno entusiastica è invece la nostra opinione sul corpo vettura.
Esteticamente negativa : priva di rifiniture.
In alcuni punti si presta a critiche sostanziali.
Una carrozzeria più in grazia di Dio ed un prezzo sensibilmente inferiore , sarebbero gli argomenti più convincenti per interessare gli Italiani alla "" CV".
Allo stato attuale l' interesse può nascere all' estero , ma non in Italia."
Tratto dalla rubrica "Prove su strada : la Renault "4 L" pubblicato sul numero di Marzo del 1962 della rivista "Quattroruote"
"Tra le belle automobili che all' ultimo Salone di Torino colpivano per l'eleganza della linea e per i colori i visitatori più o meno provveduti , faceva singolare spicco una vettura rossiccia , rozza , una vettura che in mezzo alle sue simili , così raffinate , sembrava ostentare qualità del tutto opposte.
Gli automobilisti italiani , che l' automobile la giudicano molto , anche troppo , dalla sua estetica , sconcertati sulle prime , superata la sorpresa , la guardarono con diffidenza.
Quella vettura non era bella , al massimo poteva essere interessante : era comunque l' ultima novità della maggior fabbrica automobilistica di Francia , la statalizzata Renault , che l' aveva lanciata sul mercato l' estate scorsa , in una serie di modelli.
E' una vettura utilitaria , ma una particolare utilitaria , che risponde , diremmo quasi alla lettera , alla sua classificazione , cioè una vettura che vuole essere solo utile , e non si preoccupa di essere elegante .
Perciò la sua carrozzeria è stata costruita in ossequio alle esigenze del particolare uso cui è soprattutto destinata , e la sua meccanica è stata studiata in modo di ridurre quasi a zero le esigenze di manutenzione.
Il suo prezzo è modesto : la 750 normale costa in Italia 650.000 lire cioè meno di ogni altra vettura estera."
Tratto dalla rubrica "Le prove su strada : Morris "Mini" " pubblicata sul numero di Luglio del 1961 della rivista "Quattroruote"
"Quello che più colpisce nella B.M.C. 850 , specie quando la si vede per la prima volta , è la sua piccolezza .
Sembra una giardinetta , e questa somiglianza è dovuta alla mancanza della coda sporgente ed al corpo vettura piuttosto squadrato.
La piccolezza della vettura apparentemente è attenuata dalle ruote , di abbondante sezione , ma di piccolo diametro , sistemate quasi agli estremi delle fiancate .
Una vettura originale senz' altro : non bella secondo i canoni della bellezza automobilistica , ma diciamo simpatica , forse un po' tozza , tuttavia per le sue piccole dimensioni e per il fatto di avere tutti gli spigoli arrotondati , sembra più snella di quanto sia in realtà ; cosicchè le manchevolezze estetiche di primo acchito non si avvertono .
Naturalmente , poi , esaminandola con più attenzione , si notano le cerniere esterne , i profilati che scendono sulla fiancata dei montanti del parabrezza e del lunotto , il 6tappo esterno del serbatoio , tutti particolari che non donano certo alla eleganza della vettura.
Però se queste note di carattere estetico vogliono tener conto dell' aspetto di questa macchina considerandone le esigenze pratiche ( e così dovrebbe sempre avvenire quando si tratta di una vettura utilitaria ) , non si può che esprimere un giudizio assolutamente favorevole sulla caratteristica linea della B.M.C. 850 , perché se essa lascia un po' perplesso l' occhio , in compenso risolve il problema dell' abitabilità in modo brillantissimo , considerate naturalmente le sue dimensioni
esterne.
Ultima considerazione da aggiungere a proposito dell' estetica di questa vettura : la sua linea non è stata disegnata con la collaborazione stilistica di Pininfarina come molti altri modelli della B.M.C.."
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L' automobile per tutti : cenni storici sulle origini dell'utilitaria
Sul finire degli anni '30 , le case automobilistiche iniziano a prendere in considerazione l' idea di creare una vettura che possa essere proposta ad una quantità maggiore di persone rispetto alla cerchia di pochi eletti che fino a quel tempo avevano avuto la possibilità di possederne una.
Il contenimento dei costi necessario per una diffusione a larga scala del prodotto , viene affrontato per la prima volta nella progettazione di un oggetto che era sempre stato realizzato con sistemi artigianali e quindi economicamente molto dispendiosi.
Si rendeva necessario un modo nuovo di pensare l' automobile , atto alla velocizzazione ed all' automatizzazione dei sistemi di produzione.
Di conseguenza ciò che inizialmente era stato posto come indicazione di una possibile commercializzazione , diventa ben presto un vincolo strutturale della progettazione , che porterà alla definizione di una nuova categoria di automobili , quella delle utilitarie.
L' importanza di questo momento particolare della storia dell' automobile è sottolineato in questo passo tratto dal libro di Alberto Bellucci "L' automobile italiana 1918-1943" ed. Laterza:
"Bene prezioso , l'automobile era per gli italiani degli anni venti, un oggetto quasi irraggiungibile: nel 1927 non circolavano che 119 mila vetture , una ogni 335 abitanti.
In pratica , solo una fortunatissima famiglia italiana su
cinquanta possedeva allora un' automobile ( contro una famiglia americana su due e un' inglese o francese
su sei).
E chiamare "utilitaria " la nuova 509 , come aveva fatto la
Fiat lanciando la vetturetta nel 1925, sembrava ai più un'eresia.
Sebbene di modesta cilindrata (990 cc) e dai consumi niente affatto eccessivi ( 10 - 11 km /litro circa) , la 509 era un'automobile proibitiva per le tasche degli italiani di allora. Costava, infatti, 15 .700 lire nella versione più economica, la spider a due posti, ma occorrevano già 18.500 lire per una berlina quattro posti.
Una cifra enorme, corrispondente a circa cinque anni del salario di un operaio specializzato o a circa due anni di un piccolo artigiano, di un professionista alle prime armi o di un archivista in un ministero (ma a neppure un anno di stipendio di un direttore di sezione in quello stesso ministero) .
Eppure alla 509 andrà più di un merito : quello innanzitutto di essere stata la prima vettura italiana prodotta in grande serie dalla cilindrata inferiore ai 1.000 cc; quello di aver permesso per la prima volta a un'industria italiana di superare la barriera delle 50 mila unità prodotte di uno stesso modello (in quasi cinque anni verranno costruite oltre 90 mila vetture) e quello infine di essere stata la prima macchina a inaugurare in Italia la vendita a rate.
Ma e una vendita a rate che, a causa degli alti prezzi di
listino, non aiuterà molto a diffondere l'automobile presso i ceti meno abbienti.
D'altra parte, sotto il titolo Ribassare i prezzi, la rivista
" Tutti in automobile " scriveva nell'estate del 1929 :
" Dando un'occhiata ai listini delle dieci fabbriche italiane troviamo che il prezzo più basso è di 15.700 lire per uno spider di serie di 990 c.c. di cilindrata; abbiamo poi un altro chassis di
1.290 c.c. di cilindrata al prezzo di 17 mila lire
e infine una 1 .530 c.c. che, carrozzata torpedo, raggiunge le 19.800 lire.
Tutto il resto della produzione è superiore alle 20 mila lire, per toccare le 140 mila con lo chassis Isotta Fraschini ". Per avere un'idea approssimativa dell' enormità di questi prezzi, basterà ricordare che la più popolare delle
automobili americane dell'epoca (la Ford A, un macchinone di 2.900 c.c. pesante una volta e mezzo la Fiat 509) costava meno di 500 dollari negli Usa e 125 sterline in
Gran Bretagna, cioè rispettivamente neppure 9 mila e
11 mila lire italiane (al cambio ufficiale dell'estate 1927 : dollaro a 18, 15 lire e sterlina a 88 ,09 lire) .
Certamente non è un caso se, tra il 1927 e il 1932, la Ford produrrà oltre quattro milioni e mezzo di " model A " contro le appena 90 mila 509 prodotte dalla Fiat tra il 1925 e il 1929 (che, pure, segneranno la cifra più alta raggiunta fino allora da un modello italiano) .
E non si può neppure ignorare il diluvio di spese che, una volta acquistata la macchina, travolgeva il " povero " automobilista italiano: se occorreva carrozzare lo chassis, cioè il telaio con le parti meccaniche (erano poche le auto ad essere vendute complete di carrozzeria), bisognava aggiungere innanzitutto una cifra vicina a quella sborsata per la meccanica.
Poi, era la volta di un'opprimente tassa di circolazione fortemente progressiva (in base alla cilindrata): per una modesta Fiat 509 occorrevano già 513 lire l'anno e per un'Isotta Fraschini (7.300 cc) addirittura 6.545 (oltre
sei milioni di lire odierne!).
Infine c'era da mettere in conto la benzina: 1,97 lire al litro nel 1929, 1,72 nel 1931, 2,06 nel 1932 (e addirittura 3,86 a partire dal dicembre del 1935, in seguito alle " inique sanzioni ") .
In rapporto ad un'auto odierna, poi, una macchina dell'epoca consumava decisamente di più (una volta e mezzo
circa, a parità di potenza erogata) , a causa del basso rendimento termodinamico dei motori di cinquanta o sessant'anni fa.
Ce n'era abbastanza per scoraggiare dall'acquisto della macchina anche il più ostinato degli automobilisti.
Ma, d'altra parte, già una bicicletta neppure di gran marca costava cara (395 lire, nel 1930, una Frejus) e il biglietto del tram era decisamente più salato di quanto non costi oggi (50 centesirni, nei primi anni Trenta) .
Tuttavia l'andare a piedi non poteva logicamente rappre-sentare l'unica alternativa valida all'automobile.
Bisognava, dunque, affrontare la strada di una " vera utilitaria".
E, sebbene un'auto da diecimila lire (come il senatore Agnelli aveva preannunciato a Mussolini nel suo colloquio) non sembrava davvero poter conquistare le masse, la Fiat 508 - detta comunemente ` Balilla ' - fu senza dubbio la prima vera utilitaria italiana.
" L'automobile finalmente verso il popolo. Il dono della Fiat agli italiani: la nuova Balilla ", annuncia con grande prosopopea un gigantesco striscione che campeggia all'entrata della Fiera di Milano, al cui interno è ospitato il Salone internazionale dell'automobile.
Clou della manifestazione, inutile dirlo, è la novità della Fiat: il 12 aprile 1932 è la data dello storico lancio.
Tuttavia, nonostante l'accorta regia pubblicitaria e sebbene accolta con notevole entusiasmo, la Balilla non riuscì a calamitare subito le attenzioni di moltissimi acquirenti : evidentemente, l'avere sfondato il tetto delle 10 mila lire (quando fu presentata, la berlina quattro posti costava 10.800 lire) era stata una manovra sbagliata.
Fu cosi che, dopo pochi mesi dalla presentazione, venne lanciata una versione più " spoglia " in vendita a 9 .900 lire : in cambio di qualche rinuncia (paraurti, a quell'epoca spesso
considerati solo un accessorio; fari cromati; coppe alle ruote), l'automobilista avrebbe in compenso risparmiato quasi il 10 per cento sul prezzo.
Sempre a 9 .900 lire era stata posta in vendita anche una versione spider, a due soli posti (con, a richiesta, un seggiolino esterno per due ragazzi) e priva di vetri laterali: riscosse, tuttavia, ben poco successo.
Successo che, invece, alla versione berlina non mancò dav-
vero. Tra il 1932 e il 1937 ne furono costruite 113 mila unità
(prima macchina italiana a superare quota centomila) e la cadenza produttiva toccò addirittura le 250 unità giornaliere, un vero record all'epoca per un modello europeo.
Fu proprio la Balilla, inoltre, a far decollare la Fiat :
dalle 22 mila unità costruite nel 1932 alle 38 mila del 1935 (all'incirca lo stesso numero di macchine prodotte in quell'anno da un colosso come Renault) .
Fu poi la prima vettura italiana costruita massicciamente all'estero : nascono proprio in quegli anni, per merito della Balilla, la Simca in Francia e la Polski Fiat a Varsavia, e la piccola utilitaria italiana viene anche costruita su licenza dalla tedesca Nsu, dalla cecoslovacca Walther, nonchè dalla Fiat Hispania e dalla Fiat England.
Un successo in buona parte inatteso anche per lo stesso senatore Agnelli che, sebbene convinto assertore della piccola utilitaria, non pensava davvero di poter conquistare tanti mercati esteri.
Ma una cosa, soprattutto, il senatore non riusciva ancora a sopportare della sua 508: che l'avessero obbligato a chiamarla Balilla (il piccolo eroe genovese simbolo della rivolta contro gli austriaci) , un nome a suo dire inadatto per una macchina.
Ma era un nome che rientrava perfettamente nella
" fascistizzazione " dell'automobile e che verrà addirittura
superato, nel 1933, da un 'altisonante Ardita, la nuova
Fiat di media cilindrata ( 1 .750 e 2 .000 cc) presentata nel
1933 (" Esce e conquista " era il suo slogan: ma conquistò ben pochi automobilisti) .
Nome a parte, la Balilla era una delle auto più interessanti della sua epoca.
Tra le utilitarie, poi, era probabilmente la migliore prodotta in Europa. Era, soprattutto, una " vera " automobile e non una cyclecar di derivazione motociclistica, con quattro posti
reali, un robusto motore a quattro cilindri di 990 cc, un solido telaio e freni sicuri.
Ma a parte i freni idraulici - fu la prima utilitaria europea ad adottarli, " importandoli " dalle ben più grosse macchine americane, che li impiegavano già da qualche anno -
la Balilla si distingueva per una carrozzeria tutta realizzata in acciaio (e, a quei tempi era ancora frequente l'impiego del legno e della tela) , con un robusto telaio a X in lamiera stampata.
L'impiego di una carrozzeria tutta metallica permise alla Fiat di passare da una fase quasi artigianale di produzione all'adozione di una vera e propria catena di montaggio, simile a quelle studiate da Agnelli alla Ford americana nei suoi frequenti viaggi alla ricerca di nuove idee.
Ma superando gli stessi americani, allora all'avanguardia, per la Balilla era stata studiata una carrozzeria molto solida eppure leggerissima (la vettura finita non pesava che
685 kg) grazie alla fiancata in stampo unico con la parte posteriore, cosi da assicurare la massima compattezza ed eliminando anche le complesse saldature.
Un piccolo capolavoro di progettazione (il merito va soprattutto all'ingegner Rodolfo Schaeffer, già all'epoca un
" vecchio " della Fiat), che si rivelerà in seguito di grande robustezza.
Malgrado le ridotte dimensioni d'ingombro (era lunga, senza
paraurti, 3,14 metri e larga 1,40: più o meno come l'odierna
Mini) , la vettura ospitava con un certo confort quattro persone (e anche un eventuale bambino sul sedile posteriore) . I1 segreto dell' abitabilità della Balilla (segreto " riscoperto " a mezzo secolo di distanza dallo stilista Giorgetto Giugiaro per le Fiat Panda e Uno) consisteva tutto nella sistemazione elevata dei sedili, in modo da ridurre al minimo l'esigenza di spazio per le gambe dei passeggeri .
La carrozzeria era inoltre praticamente una due volumi con
lo schienale del sedile posteriore a diretto contatto con la parete posteriore: chi voleva il portabagagli, doveva ordinarlo a parte (era un piccolo baule metallico, agganciato a sbalzo posteriormente) .
Più tradizionale il motore, un quattro cilindri in linea con
raffreddamento ad acqua (era stato scelto un semplicissimo impianto a termosifone e privo quindi di pompa :
la circolazione del,liquido era assicurata dalla proprietà che ha l'acqua calda di salire verso l'alto) . Semplice anche il cambio, a tre sole marce e sprovvisto di sincronizzatori (sarebbero stati aggiunti successivamente, con l'adozione di un cambio a quattro marce) .
La potenza erogata dal robusto motore non era poca (20 Cv a 3 .400 giri/minuto) e, grazie anche al peso ridotto, la vetturetta poteva contare su prestazioni notevoli per l'epoca: la velocità massima (80 km/h) era in pratica anche velocità di crociera mentre i consumi erano piuttosto contenuti rispetto agli standard abituali negli anni Trenta (il consumo normalizzato era di 12,5 km/litro).
E che la Balilla fosse capace di buone prestazioni e di una
non comune affidabilità per i suoi tempi, lo dimostrò subito il re dei collaudatori della Fiat, l'ex corridore Carlo Salamano, che riuscì a stabilire un vero record: 64 km/h di media sui 973 km della Torino-Napoli con delle strade a dir poco terribili (basta pensare alla salita del Bracco) .
Nella primavera del 1934, approfittando di nuovo del Salone
di Milano, la Fiat lancia la versione up-to-date della ormai celebre utilitaria.
Innanzitutto - grazie a una maggiorazione di cinque centimetri del passo , c'è ora anche una versione a quattro porte (ma il prezzo e nel frattempo salito a 12 .950 lire) , dalla linea quasi aerodinamica, con un comodo portabagagli integrato nella carrozzeria stessa (raggiungibile solo dall'interno, ripiegando lo schienale del sedile posteriore) e, finalmente, con cambio a quattro marce dotato di sincronizzatori sulla terza e sulla quarta.
La potenza aumenta un po' (24 Cv a 3 .800 giri/minuto) e cosi anche le prestazioni: la velocità massima supera adesso gli 80 all'ora.
La Balilla ormai è perfetta , ma ha perso , strada facendo , alcune di quelle caratteristiche tipiche della piccola utilitaria che ne avevano decretato il successo.
Tant' è vero che darà presto vita, nel 1937, alla " media " italiana per eccellenza: la 508 C Nuova Balilla, subito definita tout court 1.100 (la cilindrata originaria della
vetturetta sarebbe stata infatti incrementata a 1.089 cc.) .
Ma se la Balilla aumentava di stazza (e di prezzo), un buon
motivo c'era: il senatore voleva creare uno " spazio " adeguato alla Fiat minima, la futura 500.
Dopo il ben noto colloquio con Mussolini e dopo avere prati-
camente ricevuto l'incarico (se non l'ordine) di mettere in produzione un'auto da vendere a 5 .000 lire, Giovanni Agnelli fa assumere alla Fiat Oreste Lardone, un estroso e geniale progettista proveniente da una piccola ma dinamica casa torinese, l 'Itala.
Lardone aveva già progettato, per suo conto e prima di passare alla Fiat, una piccola auto a quattro posti di soli 500 c.c. che aveva incuriosito il patron della Fiat.
Ecco come Dante Giacosa, futuro padre della " vera " 500,descrive con poche pennellate l'affaire nel suo libro I miei 40 anni di progettazione alla Fiaf. " La vetturetta di Lardone era a trazione anteriore e aveva un motore a due cilindri raffreddato ad aria, due cose che certamente non piacevano al signor Alessandro Genero, responsabile della produzione. Questi non amava le novità e tanto meno il disegno sofisticato che caratterizzava il progetto di Lardone.
Per di più accadde che in una delle prime prove, sulla salita di Cavoretto, il senatore che era a bordo in qualità di pas-
seggero dovette saltare lestamente a terra per un improvviso incendio propagatosi al motore.
Lo spiacevole incidente e forse anche altre ragioni, come la rumorosità elevata, il calore proveniente dal motore e altri inconvenienti ancora influirono sulla decisione del senatore Agnelli, che di quella vetturetta non volle più sentire parlare mentre Lardone venne licenziato ".
La patata bollente dell'utilitaria-miracolo passò così dalle mani del povero Lardone a quelle dell' affiatato staff che aveva progettato la Balilla: all'ingegnere Schaeffer fu affidato, ancora una volta, il compito di disegnare la carrozzeria e all'ingegnere Enrico Fessia (che per la Balilla era stato il responsabile di tutti i calcoli) l'incarico di progettare la meccanica e il telaio completo di sospensioni e di freni .
Solo che, una volta tanto, i ruoli furono parzialmente stravolti : poichè Schaeffer aveva dato ottima prova di sè con la Balilla il suo compito avrebbe praticamente
" dominato " quello di Fessia, cui fu in sostanza dato l'incarico di " riempire " una carrozzeria con gli organi meccanici.
Un compito che un progettista ambizioso e orgoglioso come Fessia non poteva accettare. Cosi pur facendo buon viso a cattivo gioco - il senatore voleva che fosse lui in persona a progettare la piccola utilitaria - Fessia affidò in pratica tutto il lavoro al più brillante e al più abile tra i suoi ingegneri
Dante Giacosa.
Appena ventottenne, fino allora occupato nei motori di avia-
zione ma carico di entusiasmo e di idee brillanti, Giacosa fa della piccola 500 la sua stessa ragion d'essere.
" Fu un indimenticabile tour de force - confesserà anni dopo il giovane progettista nel suo libro - e mentre
l'ing. Schaeffer faceva disegnare figurini improntati allo stile che la Fiat adotterà in seguito per la 1 .500, secondo una certa tendenza americana che trovava la sua espressione più valida nella Chrysler Airflow, mi mettevo al corrente della situazione in fatto di motori, telai e
sospensioni ".
La provenienza aeronautica di Giacosa ne facevano infatti
uno " spiazzato " in quel mondo di utilitarie : ma questa fu, in fondo, una grande fortuna per la Fiat perchè Giacosa seppe adattare alla futura vetturetta molte delle avanzate tecniche allora impiegate esclusivamente per gli aerei, facendo della 500 certamente la più interessante e la più originale utilitaria della sua epoca.addirittura strabiliante, per esempio, il peso ridottissimo per un'auto lunga 3,21 metri e per giunta munita anche di telaio: appena 535 kg a progetto finito (qualche decina di chili in più
di quanto programmato) .
Ma sentiamo Giacosa: " Disegnai un telaio formato essenzialmente da due longheroni a C aperto verso l'esterno e da due traverse che collegavano i due longheroni alle loro estremità.
Il telaio era cortissimo poichè la traversa anteriore si trovava in corrispondenza dell'asse delle ruote anteriori e quella posteriore in corrispondenza dell'attacco delle molle posteriori, del tipo a balestrino.
La traversa anteriore di forma anulare aveva il compito di portare, oltre agli elementi della sospensione anteriore, il radiatore, la scatola guida e il gruppo motore e cambio.
Il cambio era infilato nella traversa anulare e il motore si trovava completamente a sbalzo rispetto alla traversa e all'asse delle ruote anteriori... Dissi, divertito, all'ing. Fessia che il motore era sostenuto dal telaio come un motore d'aviazione dalla carlinga dell'aereo ".
Una struttura semplicissima, dove la parola d'ordine era ridurre sì pesi e costi ma ottimizzare anche la qualità.
" La semplicità -dice Giacosa " è compagna della bellezza ed e anche sinonimo di bassi costi di fabbricazione ". Cento, mille particolari, grandi e piccoli, facevano della piccola 500 un'auto irripetibile: il motore, ad esempio, a sbalzo oltre l'avantreno come fosse stato progettato
per una trazione anteriore (Giacosa non lo ammetterà mai, ma era una piccola " tutto avanti " la macchina che avrebbe voluto progettare : tuttavia, la resistenza del senatore fu insormontabile) .
Il piccolo motore - le stesse dimensioni di un carburatore aeronautico - era poi un gioiello di meccanica: semplicissimo, aveva due soli supporti di banco, circolazione dell'acqua a termosifone, appena un embrione di pompa dell'olio e mancava. perfino della pompetta della benzina in quanto l' alimentazione avveniva per gravità (il serbatoio era sistemato sotto il parabrezza, molto più in alto del carburatore) .
" Ho sempre avuto una predilezione per la vettura piccola ed
economica ( confesserà Giacosa nel suo libro ).
Fin dalla più tenera età, navigando la famiglia in ristrettezze economiche, ero stato educato alle più rigide economie, avevo imparato a non sprecare nulla e a conservare il più a lungo possibile le cose che mi servivano.
Mia madre mi aveva insegnato a utilizzare anche le cose
che mi sembravano ormai da buttare ed era per me diventato un gioco divertente immaginare la trasformazione di vestiti, utensili o altro, per poterli usare in qualche modo. E il tenere
sempre presente l'aspetto economico mi è stato di grande aiuto nella mia carriera di progettista : non mi sono mai stancato di rifare o di far rifare il disegno di un meccanismo ogni volta che mi è accaduto di intuire la possibilità di una pur piccola riduzione di costo " .
E sul piano della riduzione dei pesi, delle dimensioni e infine
dei costi, per la 500 nulla fu tralasciato.
Come quella volta che furono convocati apposta a Torino i responsabili della progettazione della Pirelli per obbligarli a disegnare un pneumatico dal diametro nominale di 15 pollici (fino allora non si era scesi sotto i 16 pollici) .
Sarà dunque la 500 la prima auto al mondo ad avere
ruote cosi piccole.
E tutto appariva talmente miniaturizzato nella piccola utilitaria che il senatore Agnelli coniò addirittura un nuovo
modo di dire: " scendere in macchina ", anzichè salirvi.
Quando, finalmente, l'auto fu presentata al pubblico - era
il 15 giugno del 1936 - il successo si trasformò presto in un
tripudio.
La macchinetta piaceva da impazzire: fu subito ribattez-
zata, a furor di popolo, "Topolino ", un termine che la Fiat stenterà ad adottare ufficialmente (nei cataloghi restò a lungo soltanto quello di '500').
Nato nel 1928 ma arrivato in Italia solo nel 1932 grazie agli albi di Nerbini (ceduti nel '35 a Mondadori), il
celebre topo di Walt Disney aveva effettivamente qualcosa in comune con la piccola utilitaria italiana: il muso soprattutto, con gli occhietti vispi " interpretati " nella 500 da due faretti esterni (meglio non si poteva fare) e con le grosse orecchie nere, il cui ruolo era stato affidato nella fantasia della gente ai prominenti parafanghi esterni, neri anch'essi.
Grazie alle eccezionali doti di economia (il motorino di 569 c.c. da 13 Cv riusciva a fare in media ben 16,5 km/litro) , gli automobilisti passarono quasi sopra al fatto che, strada
facendo, il prezzo dell'utilitaria era passato dalle 5 mila lire previste in origine alle 8.900 lire definitive della versione base, con tetto rigido (ma il modello preferito, e di gran lunga, sarà quello con tetto apribile in vendita a 9.750 lire). In pratica, il prezzo era quasi lo stesso, al momento della sua presentazione, della Balilla più economica: ma questa, nel frattempo, era salita a 10.750 lire nella versione base e a 13 .500 in quella di lusso (che costerà addirittura 14 .850
lire l'anno successivo, alla vigilia della sua eliminazione dal mercato).
Come si vede, la lievitazione dei prezzi delle automobili non
è solo un problema dei nostri giorni: allora, tuttavia, il fatto sarebbe dovuto apparire ben più grave in quanto il regime perseguiva ufficialmente una politica deflazionistica, politica di cui però gli industriali recepivano solo la parte a loro favorevole (la riduzione, cioè, di salari e stipendi, sempre puntualmente attuata, per esempio, alla Fiat) .
Grazie anche al successo della Topolino, la Fiat nel 1937 riuscirà a conquistare addirittura il 7 per cento del mercato europeo fatturando per ogni dipendente (quasi 50 mila persone occupate) circa 50 mila lire, una cifra analoga a quelle delle principali case automobilistiche francesi e inglesi (che sopportavano però costi per i salari ed oneri sociali decisamente superiori) .
E di Topolino ne verranno prodotte, fino all'entrata in guerra dell'Italia, oltre centomila unità .
Un successo strepitoso anche al di fuori dei confini nazionali : nonostante le sanzioni, quando fu presentata in Inghilterra i commenti della stampa furono a dir poco entusiastici.
" I metodi di prova tradizionali - scriveva nel novembre del 1936 la rivista " Autocar " - non rendono giustizia a questo gioiellino di soli 569 cc : troppe sono le cose importanti di questa vetturetta che meritano di essere raccontate al di là delle aride cifre " .
Prosegue " Autocar " nella sua scrupolosa prova del nuovo modello : " Anche se sembra un giocattolo a causa delle sue dimensioni, basta guidarla per qualche miglio per accorgersi che è in tutto e per tutto una vera automobile: ben sospesa, ben frenata, agilissima nel traffico ma anche confortevole e veloce nei lunghi viaggi (e nelle strade extraurbane una media di 70 all'ora è più che normale) .
Particolarmente elevata anche la velocità massima per una piccola utilitaria (80 km/h, come risultato della media
dei tempi registrati sul quarto di miglio, e 84,9 km/h come miglior risultato di un solo passaggio) e praticamente irrisori i consumi (compresi tra i 15 e i 18 km/litro) " .
E ad " Autocar " fa eco " Motor ", altro baluardo dell'infor-
mazione automobilistica: " Non c'e un'altra automobile con la stessa carica di fascino : il diminutivo di Topolino che le è stato affibiato appare quanto mai giustificato ".
Fascino cui davvero i giornalisti specializzati inglesi non seppero resistere : furono in molti ad acquistare la Topolino nonostante fosse stata posta in vendita a 126 sterline e
15 scellini, un buon venti per cento in più della
intramontabile Austin Seven, che nonostante l'aspetto da
cyclecar portava pur sempre quattro persone (contro i due posti misurati della Topolino : ma gli italiani seppero infilarci dentro anche intere famigliole) e aveva un motore da 750 c.c.
" Tuttavia la Topolino è davvero un'altra cosa ", tagliava corto " Autocar ". " La piccola grande vettura Fiat può essere pagata con 295 lire al mese : meno di dieci lire al giorno ",
Strombazzava intanto la pubblicità per la vendita a rate della Topolino su tutti i giornali italiani.
Oggi sembrano spiccioli, ma allora non lo erano affatto:
era più della metà dello stipendio di una dattilografa o di un disegnatore meccanico, era praticamente il mensile di un usciere o di un bidello di scuola .
Che dire poi del prezzo della prima utilitaria della Lancia?
Uscita nel 1939, l'Ardea costava infatti quasi due volte e mezzo una Topolino (che nel frattempo aveva raggiunto le 10.500 lire) e addirittura più delle 20.750 lire richieste allora per una Fiat 1.100, decisamente più confortevole e soprattutto più abitabile della nuovissima " piccola " Lancia.
Eppure l'Ardea riuscì a riscuotere un buon successo e solo
l'entrata in guerra dell'Italia, nel giugno del 1940, riuscì ad arrestarne produzione e vendite.
Piccola davvero (era lunga 3,6 1 metri e larga appena 1 ,38 :
meno delle attuali Fiat 127 o Uno), l'Ardea aveva tuttavia una
riuscitissima linea letteralmente " copiata " da quella dell'Aprilia, la Lancia di maggior successo degli anni Trenta. Ma sotto una carrozzeria moderna (naturalmente a scocca portante, com'era ormai tradizione per le Lancia) e assolutamente inconfondibile, la piccola Ardea nascondeva una meccanica più tradizionale di quella dell'Aprilia.
Solo il motore, disegnato da un tecnico di grande valore
come Vittorio Jano dopo la sua uscita dall'Alfa Romeo, e la
sospensione anteriore (dal caratteristico disegno Lancia, a
" cannocchiali " verticali) la distingueva nettamente dalle utilitarie concorrenti .
Il piccolo propulsore (appena 903 cc: la cilindrata più bassa
mai toccata da una Lancia) aveva un inconfondibile disegno a quattro cilindri a V stretti e sfalsati, con valvole in testa comandate da un ingegnoso meccanismo mosso da un albero a camme sistemato nella parte alta del monoblocco.
Notevole poi, per i tempi, la potenza erogata da un motore cosi piccolo: 28 Cv a 4.600 giri/minuto.
Una potenza che, grazie anche al peso contenuto (750 kg) e alla ridotta superficie frontale della carrozzeria, consentiva prestazioni di tutto rispetto (la velocità massima toccava i 108 km/h) con consumi molto ridotti (appena 7,5 litri per 100 km, pari a più di 13 km con un litro)
E il consumo era, nella piccola Lancia, l'unica voce davvero " utilitaria ", perchè nè il prezzo di vendita nè l'alto
costo dei ricambi consentivano all'Ardea di uscire dalla cerchia ristretta delle auto di lusso. Piccola ma di lusso.
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