Sembrerebbe un controsenso affermare che è possibile progettare, quindi porre in essere artificialmente, il naturale, cioè qualcosa per definizione non governabile dalla volontà umana. In realtà progettare il naturale non è un’impresa impossibile come potrebbe sembrare.
Importanza fondamentale ha l’atteggiamento col quale ci si pone di fronte ad un problema siffatto. Tutt’oggi per molti il verbo progettare presuppone la necessità di confrontarsi con la natura, opponendosi alle sue leggi cercando di dominarla, un po’ come avveniva nei tempi andati quando si costruivano quei monumenti di geometria profumata quali erano i giardini all’italiana.
Loos sosteneva che l’architettura debba assolvere la funzione di prolungamento della natura mentre quasi sempre l’architettura supera tale limite cercando di assurgere ad una autodefinizione simbolica, per innalzarsi ad elemento dominante del paesaggio. Così l’architetto potrà, concependo l’uomo come prodotto della natura, progettare edifici che sboccino dal paesaggio, come diceva Frank Lloyd Wright, magari tendendo verso forme biomorfiche anziché geometriche.
Fortunatamente una nuova teoria del progettare su sta diffondendo. Attualmente si sta prendendo coscienza che esiste un nuovo modo di affrontare il problema, un modo che si pone tra natura ed artificio e che esclude a priori la dicotomia fra naturale ed artificiale.
Considerando i due sistemi, il naturale e l’artificiale, possiamo affermare con certezza che entrambi perseguono, in virtù dei loro processi evolutivi, una finalità comune: l’aumento di complessità. Gli ambienti naturali acquistano complessità attraverso l’evoluzione genetica; gli ambienti artificiali si evolvono aumentando la propria complessità formale e funzionale.
“Queste evoluzioni avvengono attraverso sequenze ripetute iterativamente di momenti di biforcazione, di scelte soggettive/casuali i cui risultati non sono definitivi, ma vengono immediatamente riproposti, nel ciclo successivo, come base per richieste ulteriori, per nuovi aumenti di capacità di risposta, di complessità.”
Il processo dinamico che sta alla base dei due processi evolutivi è identico e le uniche diversità si riscontrano nelle modalità operative; aumento di complessità in tempi brevi e con un numero di cicli ridotto per il processo evolutivo dell’artificiale; ripetizioni di cicli di formalizzazione relativamente semplici, legati al caso e in tempi lunghi per l’evoluzione naturale.
Ma c’è un altro aspetto che ripropone la similitudine tra progetto e natura. Come la natura diventa più ricca e più “naturale” con l’aumento dei problemi e degli eventi contingenti ai quali è assoggettata; così il progetto si migliora, aumenta di complessità, diventa più efficiente nel rispondere alle richieste, maggiori sono le difficoltà incontrate dal progettista nel corso dell’elaborazione formale. Difficoltà che però non devono essere concepite come ostacoli da scavalcare per raggiungere la propria meta ma come occasioni di crescita, occasioni che contribuiranno ad aumentare la qualità progettuale.
Alla luce di quanto detto non ci sembra esserci altra via d’uscita per ciò che riguarda la progettazione architettonica. Le metodologie di progettazione analitiche, che ci hanno portato alla formalizzazione di architetture statiche ed incapaci di proporre alternative futuribili, sembrano ormai obsolete. Più consono ci sembra essere un atteggiamento che tenga conto del disequilibrio insito nelle logiche evolutive dei sistemi dinamici in evoluzione, quali sono quello naturale e, ovviamente, quello artificiale.