La dinamica evolutiva, in quanto generatrice di complessità, è uno degli aspetti principali che si debbono considerare quando si affronta un progetto del naturale/artificiale. “La complessità, sia che ci si riferisca ad una città stratificata storicamente, ad un ambiente naturale, ad un’architettura o ad un oggetto industriale deriva dalla storia, reale o virtuale che è stata percorsa nel progetto, e/o nell’evoluzione”. Personalmente ritengo che l’importanza della storia evolutiva sia di gran lunga maggiore per l’ambiente naturale in quanto risulterebbe impossibile o per lo meno ingannevole riprodurre un evento naturale distrutto dall’uomo; così non è, o per lo meno lo è in misura minore, per un elemento urbano che può essere riedificato in minor tempo e con meno danno qualitativo per l’ambiente.
Il processo vitale che si esplica al trascorrere del tempo può essere riassunto in una sola frase; “la dinamica evolutiva ambientale genera la complessità dell’ambiente, aumenta la sua capacità di risposta ad eventi futuri e crea nuove situazioni in grado di generare nuovamente complessità”. Tutto ciò non fa altro che caratterizzare il luogo e renderlo perciò unico e degno di enorme rispetto.
Il primo passo da compiere per attivare la dinamica evolutiva del progetto, e quindi il progetto stesso, è quello di rompere lo stato di equilibrio che preesiste alla nascita di un’idea. La morfogenesi potrà così avere inizio e caratterizzare il fatto progettuale grazie alla riconoscibilità datagli dalla logica progettuale, soggettiva e quindi unica. Dobbiamo rompere l’ordine insito in ogni fenomeno naturale istituzionalizzato dalla protratta mancanza di circostanze alteranti l’equilibrio. “Se una situazione è costituita da un sistema chiuso di forze, queste si disporranno in modo tale da ridurre al minimo la tensione del sistema stesso. A questo punto cessa ogni azione, e il sistema si mantiene in equilibrio a meno che non subentrino dall’esterno nuove forze a modificare la situazione.”
Per fare questo fatidico primo passo abbiamo però bisogno di un aiuto, di una chiave iniziale che metta in moto meccanismo progettuale. Cosi, come nelle reazioni chimiche spesso bisogna aiutare il processo naturale con l’innesto di un elemento catalizzatore, anche nell’”alchimia progettuale” serve un catalizzatore formale, ossia un evento temporale che dia il la alla logica di sviluppo formale. Il catalizzatore può essere qualsiasi occasione capace di stimolare la formalizzazione delle richieste; molto spesso è utile solo all’avvio del progetto e viene quasi immediatamente accantonato se non addirittura eliminato.
Avviato il progetto, dato che la complessità determina il livello di qualità raggiunto dal progetto, risulta indispensabile riuscire a gestire la dinamica evolutiva in modo da controllare la crescita del progetto e quindi la sua complessità. Ma come compiere questa operazione tanto importante?
Nel momento immediatamente successivo l’inizio della dinamica che conduce alla formalizzazione di un progetto plausibile, l’elemento catalizzatore inizia a “lavorare” ed a ordinare ciò che è presente.
Il tempo del progetto ha iniziato a scorrere! Da ora ogni richiesta che verrà posta necessiterà di una interfaccia formale che darà origine ad altre proposte di formalizzazione. Esiste però un pericolo latente; c’è la possibilità che, per un errore di valutazione, che il tempo si fermi, che ci si trovi nuovamente rinchiusi in un’immobilità che ci costringa a re-iniziare la dinamica temporale.
IL PARADIGMA INDIZIARIO
Gestire la complessità attraverso la regolazione dei processi evolutivi non è operazione semplice e per attuarla dobbiamo servirci degli strumenti appropriati; solo in questo modo avremo qualche speranza di raggiungere un buon livello di intersoggettività del progetto e quindi di qualità.
Il primo strumento utile al raggiungimento dello scopo è senza dubbio l’utilizzo di paradigmi indiziari successivi, in grado di gestire i momenti evolutivi e quindi gli eventi di continuità e discontinuità che si verificano dal primo a quello che noi designamo essere l’ultimo atto progettuale.
Tutti i nostri sforzi in sostanza debbono essere impiegati per la produzione di un modello che sia il più vicino possibile ai nostri desideri di oggetti reali, desideri indotti dalla soggettività emozionale e dal nostro inconscio onirico. Definito il modello è importante verificare che esso risponda alle richieste e produca evoluzione, riproponendo ulteriori richieste e formalizzandole come ulteriori domande non previste.
“L’indicazione di base è perentoria: dobbiamo produrre in anticipo un modello che dovrà essere capace di rispondere a delle richieste che ancora non si conoscono”. Purtroppo, o fortunatamente, il ciclo RICHIESTA > RISPOSTA > FORMALIZZAZIONE > RICHIESTA non si arresta mai ma anzi, viene alimentato dagli eventi contingenti e casuali i quali modificando il contesto ripropongono, come un vite senza fine, il processo che inizia con la richiesta e finisce con una ennesima richiesta.
Il paradigma indiziario è quell’entità che ci permette di non perdere il controllo degli avvenimenti accrescitivi del progetto, è un’ipotesi soggettiva di organizzazione degli elementi esistenti e di quelli a venire. È grazie alla propria costituzione che in qualsiasi momento riusciremo a dominare il progetto senza farci allontanare dal nostro obiettivo, distratti da eventi fuorvianti.
Il paradigma indiziario però per assolvere positivamente al proprio compito deve avere due requisiti fondamentali. Deve innanzitutto riflettere il nostro bisogno soggettivo di architettura; deve poi essere, qualità estremamente importante, adattabile alle situazioni contingenti. Solo se possederà questi requisiti il paradigma formale potrà gestire tutte le informazioni necessarie e non, che interverranno durante la fase di progettazione dell’oggetto architettonico. La capacità del paradigma di organizzarsi, di modificarsi secondo le necessità del momento, permetteranno al progetto di non entrare in quella fase di staticità che ne minerebbe la ricerca di quella complessità che è il passo più importante da compiere verso la qualità progettuale.
La capacità di autorganizzazione porta alla sostituzione di un modello con un altro ma, allo stesso tempo, ad una maggiore apertura e quindi ad una maggiore possibilità di rispondere a tutte le domande pregresse che il modello precedente non ha saputo soddisfare.
Ma come si forma un paradigma indiziario? E da cosa è composto?
Un paradigma indiziario si compone grazie a tre campi di pertinenza: uno si basa sulle necessità funzionali, ossia su tutte quelle richieste di prestazione che un qualsiasi manufatto umano deve possedere affinché sia giustificata la sua creazione; il secondo concerne la casualità e la soggettività, il quale è anche il più importante nonché il vero propellente della dinamica progettuale in quanto svolge un ruolo di catalizzatore; l’ultimo incrementa la formazione di ordine, operando a lungo raggio mantenendo però il motore progettuale ad alto regime di giri, impedendo così una situazione di stallo.
Concretamente il paradigma indiziario si compone di alcuni aspetti.
Innanzitutto il più immediato ed istintivo è quello di tipo geometrico. Attraverso la geometria e la creazione di matrici geometriche si può tentare con buoni risultati di controllare la formalizzazione del progetto, sia che ci si serva di una trama più o meno ortogonale, o di geometria frattale.
L’aspetto topologico e le matrici topologiche derivanti sono, in sostanza, responsabili del controllo delle sequenze spaziali e temporali che si verificano nel progetto e quindi apportatrici direttamente di nuova complessità.
Ogni richiesta formulata dal committente e/o dal progetto in evoluzione deve essere evasa ma in maniera idonea. Perché ciò avvenga le risposte dovranno essere simultanee e gerarchicamente esperite; in altre parole la gerarchizzazione e la simultaneità sono gli aspetti del paradigma indiziario che determinano più in profondità la caratterizzazione del risultato e della logica d’approccio adottata.
Il rapporto tra ordine e trasgressione è un’altra struttura di relazioni importante ai fini della caratterizzazione della logica formale. L’ordine, inteso come l’organizzazione di possibili chiavi di lettura dell’artificiale, offre la possibilità di capire immediatamente l’organizzazione totale del progetto. Definito un possibile ordine da inserire nel paradigma organizzativo, potremo controllare la dinamica evolutiva del progetto controllando anche le eccezioni che lo contraddicono, intendendo le eccezioni come eventi inaspettati.
La più importante caratteristica del paradigma organizzativo è la flessibilità, che si manifesta quando gli eventi eccezionali intervenuti nell’evoluzione temporale del progetto sono talmente pregnanti e numerosi, che sono riusciti a cambiare le carte in tavola ed il paradigma formale fino ad allora valido ha perso di efficacia. A questo punto la soluzione da adottare e quella di effettuare un salto logico, creando un momento di discontinuità cambiando radicalmente il paradigma di riferimento.
Il passaggio da un paradigma organizzativo all’altro è un evento importantissimo in quanto, oltre ad impedire il ristagno dell’evoluzione progettuale, è responsabile dell’eliminazione di tutti i detriti di categoricità che, esaurito il loro compito ed ormai inutili, permanendo del processo rischierebbero di alterare la dinamica innescata. Con questo evento il nostro progetto reagisce all’imprevedibile, manifestando le proprie doti di apertura e flessibilità, diventando più affidabile. Il tutto avverrà senza che avvenga la perdita di quelle scelte formali accettate in precedenza, che rimarranno nel fatto progettuale anche se manifestate in maniera diversa, fornendo la capacità di risposta che aveva prima del salto logico effettuato.
Ogni variazione che si effettua nel paradigma deve definirne una maggiore apertura e complessità, intese come maggiore capacità di risposta operante a livelli più sofisticati.
“Il risultato di tutto ciò è simile alla selezione naturale della specie. Gli elementi capaci di adattarsi e di rispondere alle sfide dell’ambiente sopravvivono, gli altri vengono eliminati. Ed alla fine chi sopravvive ha acquisito complessità ma non ridondanza, essenzialità ma non semplificazione, capacità di risposta diversificata, ma non appiattimento plurifunzionale.”