ANTONIO SANT'ELIA E I SUOI DISEGNI

 

Antonio Sant’Elia nasce a Como nel 1888. Frequenta le scuole tecniche a Cantù e la Scuola di Arti e Mestieri a Como. Si diploma perito edile nel 1906. L’anno dopo lo troviamo a Milano, come capomastro prima, disegnatore edile poi. Nel 1908 si iscrive all’Accademia di Brera. Frequenta i luoghi di ritrovo degli artisti, dove conosce Carrà, Funi, Boccioni, Mario Chiattone e molti altri. Nel 1910 passa gli esami di ammissione al secondo corso di Brera, che però frequenta solo per un breve periodo.

Il periodico "L’artista moderno" pubblica due suoi progetti architettonici, come già era successo l’anno precedente sulla rivista "La casa", alla quale aveva inviato degli studi per una villa.

Nel 1911 partecipa con Italo Paternoster al concorso internazionale per il nuovo cimitero di Monza, ma non viene giudicato positivamente. Dal 1912 lavora per l’architetto Cantoni nel concorso per la nuova stazione di Milano; lo stesso anno progetta e realizza una villetta rustica sopra Brunate, unica sua opera realizzata.

Nei due anni successivi partecipa ad altri concorsi, espone alcuni schizzi alla Permanente e presenta (1914) le tavole della Città Nuova. Questo è l’anno del Manifesto dell’architettura futurista.

Quando nel 1915 l’Italia entra in guerra si arruola volontario e ritrova Marinetti, che già conosceva, Boccioni, Funi, Sironi, Piatti. Nel 1916 cade in combattimento sull’Isonzo e conclude la sua breve vita, troppo breve per poter affermare con certezza il ruolo che avrebbe potuto svolgere nel panorama architettonico del Novecento.

Sant’Elia affida esclusivamente al disegno le sue proposte architettoniche: non le realizza costruttivamente, né le dota di piante o di precisazioni utili alla loro codificabilità. Ciò ha indotto molti critici a limitarne la rilevanza.

Ragghianti parla di Sant’Elia come del "Bibbiena del Duemila". (C.L. Ragghianti, Sant'Elia, il Bibbiena del Duemila, in "La critica d'arte", X, n.56, 1963, pp.1-22)

De Seta antepone la sua poetica ai suoi disegni, che giudica "scene urbane senza scala" (C. De Seta, Architetti italiani del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp.9 e 31), prive di quegli elaborati tecnici che consentono di parlare di progetto in senso proprio.

Secondo Argan Sant’Elia fu preminentemente un teorico. I suoi disegni "anche se precorrono, non concludono: la sua concezione ideologica dell’architettura lo porta necessariamente a confondere l’aspirazione con la rappresentazione; perché fuori di questa aspirazione individuale sarebbe sorto il valore monumentale dell’architettura, destinato a diventare anacronistico, e perciò antiartistico - dal suo punto di vista - col cessare dell’aspirazione da cui era uscito. [...] Appunto perché le esigenze pratiche non sono determinate, ma idealizzate in un’esigenza generale di storicità, la concezione rimane una concezione nel vuoto: attività poetica e non poesia, aspirazione all’arte e non arte, ideologia e psicologia dell’architettura e non architettura". (G.C. Argan, Il pensiero critico di Sant'Elia, in "L'Arte", XXXIII, V, settembre 1930, ripubblicato in AAVV, Dopo Sant'Elia, Ed. Domus, Milano, pp.45-50, e in G.C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano, 1965, pp.203-211)

Anche nei testi di storia dell’architettura Sant’Elia occupa un posto marginale. Zevi parla dei suoi rapporti col Futurismo, concludendo che di lui, "all’infuori della romantica immaginazione, nulla rimase nel campo dell’architettura". (B. Zevi, Storia dell'architettura moderna, ed. 1955, pp.224-225)

Benevolo, Tafuri e Dal Co lo liquidano in poche righe. (L. Benevolo, Storia dell'architettura moderna, Laterza, Bari. 1960, II, pp.495-496; M. Tafuri, F. Dal Co, Architettura contemporanea, Electa, Milano, 1976, p.121)

L’individuazione delle sue radici mitteleuropee, sulla linea Wagnerschule-Secessioni, lo hanno fatto uscire dall’univoca connessione col Futurismo; anche se la condanna a quel clima architettonico, contenuta a chiare lettere nel suo Manifesto dell’Architettura Futurista lo ha ridotto spesso ad un epigono del Liberty. (I. Tagliaventi, Sant'Elia e l'architettura futurista, in "Ingegneri, architetti, costruttori", ottobre, pp.233-237, novembre, pp.255-261, dicembre, pp.284-287, Bologna, 1954; R. Banham, Sant'Elia, in "The Architectural Review", London, 1955, pp.295-311; R. Bossaglia, Il Liberty in Italia, Il Saggiatore, Milano, 1968)

Sant’Elia si muove su due livelli operativi, quello strettamente professionale, relativo ai progetti elaborati e ad alcune concrete realizzazioni, e quello dei suoi schizzi e delle tavole della Città Nuova. Attraverso l’analisi degli schizzi si può notare la reiterazione di "paradigmi e di operazioni ricorrenti" (P. Portoghesi, Il linguaggio di Sant'Elia, in "Controspazio", III, nn.4-5, Bari, aprile-maggio, 1971) che riconducono i disegni ad una sintassi unitaria: sono i temi dei blocchi gradonati, dell’architettura obliqua, delle strutture bipolari, dei temi del telaio, della piramide, del contrafforte, del movimento in atto.

Ovviamente il Sant’Elia maggiore è quello della Città Nuova, con le sue stazioni, le case a gradinate, i grandi fabbricati con ascensori esterni (alla Blade Runner).

Il Sant’Elia giovane parte da influssi eclettici, improntati al wagnerismo e al secessionismo, in aderenza al clima dominante a Milano alla fine dell’800. Non è ancora cosciente delle risposte da dare alle richieste della città industriale, rimane però attratto dalla monumentalità straripante dei progetti di Otto Wagner e della sua scuola, dalle proporzioni spesso fuori misura di quelle ideazioni, dal loro tono "antico". Una monumentalità accentuata dal ricorso a particolari tagli prospettici, che esaltano la dinamicità degli edifici rappresentati.

Sono espedienti che Sant’Elia adopererà, soprattutto nelle tavole della Città Nuova, e che talora enfatizzerà mediante l’uso del colore. Anche negli schizzi il nostro ribadisce la propria capacità di dare consistenza architettonica agli edifici, nonostante la critica li abbia spesso ridotti ad una mera questione di rappresentazione, se non di scenografia.

L’immaginazione di Sant’Elia sembra partire dall’interno dell’architettura - del resto quasi mai rappresentata - per plasmare una struttura esterna che obbedisce ad una sorta di pressione che l’interno esercita verso l’esterno. Le linee inclinate servono a Sant’Elia proprio per manifestare questa forza centrifuga. Significato analogo hanno i contrafforti e le gradinate, e tutti gli altri elementi utilizzati in funzione dinamica.

Le forme della tradizione - come il contrafforte o l’arco - sono lisce, private di qualsiasi connotato decorativo. Egli punta su costruzioni archetipali: la casa, il tempio, il castello, la torre, il ponte. Nel creare nuove tipologie, quindi, non cancella il passato, anzi tende a radicarsi nelle forme del passato. Quasi che egli intendesse trasformare la città conservando il retaggio della storia; nei suoi disegni ci sono riferimenti ad architetture fantastiche, richiami all’architettura gotica, civile, militare: torri, ponti levatoi, passaggi sospesi... Un passato che vuol diventare presente e proiettarsi nel futuro.

Ma ciò non basta: si avverte tensione, inquietudine; le architetture evocano movimenti che si compiono nella mente dell’autore. Gli eventi sono raffigurati in un clima di purezza: c’è una città deserta, costruita in funzione della vita moderna, percepita nella sua drammaticità, nella sua irresolubilità.

Oltre alle tipologie tradizionali Sant’Elia studia gli edifici della modernità: centrali elettriche, fari, ponti, stazioni, hangar, tutti collegati al tema dell’elettricità, nuova realtà che trasforma la vita della città. E intanto viene attratto dal movimento futurista, che egli subisce fagocitato da personalità che lo dominano, Marinetti in primis. Entra in sintonia con le tematiche della velocità, della simultaneità...

Disegna le tavole della Città Nuova, che procedono dal disegno prospettico all’alzato, e dalle quali derivano le proiezioni delle varie viste. Mancano piante e sezioni, segno evidente di contestazione dell’ordinaria pratica architettonica, giudicata inadeguata alle nuove esigenze urbane; segno che l’architetto stesso era cosciente della non realizzabilità di quei progetti, oppure che non era necessaria questa pratica, visto che egli "riusciva a disegnare una pianta senza disegnarla, dando alle sue architetture una volumetria così trasparente, così comprensibile, da far sì che un occhio appena educato fosse in grado di ricostruire la struttura planimetrica mai disegnata". (P.Portoghesi, op.cit.)

Gli interventi di Sant’Elia propongono quasi sempre edifici singoli, frammenti di città; per avere una visione unitaria di tale città "occorre riunire tutti gli schizzi, come episodi di un discorso virtualmente unitario". (M. Nicoletti, L'architettura Liberty in Italia, Laterza, Roma-Bari, 1978, p.375)

Una città in cui le persone sono poco più che ombre, puntini vaganti in spazi illimitati. Una città lasciataci in eredità da quel "visionario di ferrigne visioni" (M. Sarfatti, Ad Antonio Sant'Elia, in "Il Mondo", Milano, 28 ottobre 1916) di nome Antonio Sant’Elia.