GIOVANNI BATTISTA PIRANESI E LE SUE CARCERI

 

Giovanni Battista Piranesi nasce a Venezia nel 1720; poco più che ventenne si reca in viaggio a Roma, dove rimane profondamente impressionato alla vista dei resti degli edifici della Roma antica e imperiale. Al suo ritorno a Venezia, tre anni dopo, frequenta forse la scuola di G. B. Tiepolo; ma l’anno successivo (1724) decide di trasferirsi in pianta stabile a Roma, dove rimarrà fino alla morte (1778).

Qui apre una bottega, con l’intenzione di fare valere la propria formazione di ingegnere e di architetto; ma nel corso degli anni le occasioni di lavoro si presenteranno di rado.

Il suo unico intervento di una certa rilevanza è la risistemazione del complesso di Santa Maria del Priorato a Roma (che non tratteremo, sebbene per alcuni aspetti - come nell’episodio dell’altare di San Basilio - rappresenti la diretta esplicitazione della sua ricerca).

Invece si fa apprezzare come abilissimo incisore di magnifiche vedute delle rovine romane, e come teorico dell’architettura, dove non manca di esercitare una profonda influenza sullo sviluppo delle concezioni neoclassiche e romantiche.(N. Pevsner, J. Fleming, H. Honour, Dizionario di architettura, voce "Piranesi", Einaudi, Torino, 1981, p.508)

Le riflessioni di Piranesi sono concentrate in cinque scritti, dai quali si desume - in un vero e proprio crescendo - la volontà di frantumare i codici della lingua e della storia dell’arte per restituirli all’interpretazione soggettiva.

Nel "Della Magnificenza ed architettura de’ Romani" (1761), egli intende dimostrare l’origine etrusca e non greca dell’arte romana, la priorità dell’arte egiziana su entrambe, e l’infondatezza del pregiudizio secondo il quale la civiltà romana sarebbe rimasta barbara e rozza fino all’incontro con i greci. (G.B. Piranesi, Scritti di storia e teoria dell'arte, a cura di P. Panza, Sugarco, 1993, p.17)

Nelle "Osservazioni sopra la lettera del Signor Mariette agli autori della Gazètte Littéraire de l’Europe" (1765), l’autore confuta le confutazioni di Mariette a quanto aveva scritto nel "Della Magnificenza". Il tono è accalorato, anzi infuriato. Piranesi ribadisce la propria tesi storica, "i Romani ne’ primi tempi furon magnifici al pari degli Egiziani e de’ Greci" e "nel fabbricare non seguirono il costume de’ Greci, ma il loro proprio". Qui la novità è il ribaltamento di alcuni assunti teorici, all’interno di un’istanza anticlassica che si rivela come il sogno sopito piranesiano. (G.B. Piranesi, op. cit., pp.214-215)

Dello stesso anno (1765) è il dialogo "Parere su l’architettura" che consente a Piranesi di esplicitare i limiti e gli obiettivi della disciplina architettonica. Protagonisti sono Protopiro, un rigorista vitruviano di stampo lodoliano, e Didascalo, alter ego di Piranesi. La vexata quaestio è il rapporto tra ornamento e architettura: fino a che punto l’architettura può definirsi tale in assenza dell’ornamento? L’ornamento è un accidente esteriore o piuttosto una determinazione costitutiva dell’architettura? (G.B. Piranesi, op. cit., p.245)

Sempre nel 1765 appare la "Prefazione" al "Della introduzione e del progresso delle Belle Arti in Europa ne’ tempi antichi", saggio storico mai scritto, ma che nell’intenzione dell’autore doveva esporre le origini e lo sviluppo dell’arte antica del bacino del Mediterraneo. Piranesi ribadisce la tesi secondo la quale i Romani non appresero nulla dai Greci se non qualche "corbelleria" ornamentale. Firmitas e utilitas costituiscono un aspetto degenerativo della prassi architettonica. Ad esempio, la magnificenza e la solidità degli acquedotti romani non sono prove della grandezza delle idee dei Romani, ma prove del loro gusto. Così il giudizio di gusto viene affrancato dall’esclusivo sodalizio con la decorazione intesa come espressione di uno stile. (G.B. Piranesi, op. cit., pp.269-270)

Infine nel 1769 Piranesi dedica a monsignor Giovanbattista Rezzonico, suo mecenate, la raccolta decorativa "Diverse maniere d’adornare i cammini ed ogni altra parte degli edifizi desunte dall’architettura Egizia, Etrusca e Greca", accompagnata da un "Ragionamento apologetico in difesa dell’architettura Egizia e Toscana". Il volume presenta un discorso di 35 pagine sul primato dell’architettura egizia ed etrusca con il quale l’autore conclude i suoi studi sul problema dello stile, delineando una poetica in cui la sperimentazione, il sincretismo degli stili e la trasformazione del linguaggio codificato, ovvero l’inevitabilità del disordine, prendono il posto del rigore filologico ed accademico.

Piranesi esalta l’originalità creativa del bricolage come risposta alla fine del predominio di un linguaggio puro, scredita Palladio e innalza il ruolo costitutivo dell’immaginazione come strumento di reinterpretazione dei dati archeologici e storici. Il problema sul tappeto è quello dell’opportunità dell’uso dell’ornamento nelle opere di architettura e di arredo. La perizia dell’architetto sta nel trovare un giusto equilibrio tra l’esigenza di veridicità del manufatto architettonico (il "no" alla maschera) e il capriccio propriamente umano di ricercare il vezzo, l’ornamento. Non è l’eccesso di ornamento che confonde, quanto la mancanza di ordine e disposizione. D’altra parte l’uomo è amante della novità, che si può ottenere facendo confluire tutti gli stili storici nella composizione. Piranesi riprende ancora una volta le tesi avanzate in precedenti scritti circa l’originalità e l’adeguatezza delle arti egizia ed etrusca, screditando di pari passo l’arte greca e l’autorità di Vitruvio a proposito dell’origine dei tre ordini classici, che l’architetto augusteo aveva fatto risalire ai Greci. Il nostro ne attesta invece i prodromi nell’arte palestinese e fenicia, e sottolinea l’importanza dell’arte etrusca nell’elaborazione di un originale lessico architettonico e di un articolato sistema di fabbricazione. Egli conclude la sua opera di teorico con un vero e proprio manifesto di poetica: contro la schiavitù di un solo stile, si deve esaltare la capacità inventiva e la frantumazione dei linguaggi e degli stilemi tradizionali, in un clima di sostanziale sincretismo ed eclettismo. Le antichità e gli elementi stilistici del passato divengono un ricettacolo pronto ad essere trasfigurato dalla potenza immaginativa dell’artista, che li trasforma in forme viventi. (G.B. Piranesi, op. cit., pp.287-289)

Quest’ultimo concetto, a nostro avviso, diviene di enorme importanza quando ci si accinge ad esaminare con occhio attento le tavole delle "Carceri" di Giovan Battista Piranesi.

Le forme architettoniche, abitatrici di uno spazio che pare non conoscere limiti, dominano assolutamente la scena, relegando l’uomo al ruolo di semplice comparsa. Il sipario si leva su scenari assolutamente apocalittici, in cui l’artista plasma secondo la propria fantasia tutti gli elementi che corrispondono alla propria concezione dell’antico.

Lo spettatore è catapultato in un universo onirico, allucinato e allucinatorio, in una complessa struttura architettonica, una sorta di cittadella inaccessibile ai probi: una città-carcere, terribile tanto per chi è costretto a soggiornarvi, quanto per coloro che hanno il privilegio di vederla attraverso il racconto della mente visionaria di Piranesi. In tutte le incisioni è presente una serie di elementi ricorrenti: arcate di dimensioni ciclopiche che attraversano lo spazio perdendosi in lontananza... Ponti levatoi, passerelle che si dirigono verso luoghi inaccessibili alla vista... Lunghissime gradinate che si dipartono da quote sconosciute e che non paiono terminare mai... Portali massicci che sbarrano l’ingresso a celle buie e presumibilmente grondanti di umidità... "Ermetiche macchine di tortura" (M. Tafuri, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino, 1980, p.33) che campeggiano spesso in primo piano...

Il tutto è corredato dagli immancabili accessori di un carcere che si rispetti: pesanti catene appese a grossi anelli di ferro, pioli marmorei, lampadari pendenti da travature lignee, torce, carrucole, scale a pioli...

Antichità ed elementi stilistici del passato - polo fondamentale della ricerca piranesiana - sono congiunti ad "evocare una strutturalità primigenia, connessa alla celebrazione della Lex romana, dell’idea di giustizia" (M. Tafuri, op. cit., p.34). Una strutturalità che si rifà alla Roma dei re, una Roma ancora un po’ etrusca, la cui grandezza "si fondava soprattutto sulle virtù civili e sull’equità e intransigenza delle sue leggi".(M. Calvesi, Introduzione a H. Focillon, Giovanni Battista Piranesi, a cura di M. Calvesi e A. Monferini, Bologna, 1967, p.XVII)

Piranesi dà alle stampe una prima versione delle Carceri intorno al 1745, nei primi anni di soggiorno a Roma. Nella prima Tavola, infatti, si legge: "Invenzioni capric... di carceri all’acqua forte datte in luce da Giovanni Bouchard in Roma mercante al Corso". Può sorgere il dubbio che le 14 tavole, inizialmente, non siano altro che un capriccio, l’improvvisazione di una giovane mente stimolata dalla vista dei resti e dei ruderi delle antichità romane. Una sorta di esercitazione del tratto e della fantasia - e quale fantasia... - , sulle orme dei suoi primi lavori degli anni precedenti: la "Prima parte di architetture e prospettive" (1743) e i "Capricci decorativi" (1744).

Nel 1760-61 compare però una seconda edizione delle Carceri, in cui oltre alle tavole precedenti - notevolmente rielaborate - ne sono presenti alcune nuove. è certamente plausibile la tesi di Philip Hofer (P. Hofer, Introduzione a G.B. Piranesi, The Prisons, Dover Publications, Inc, NY, 1973) secondo cui Piranesi abbia rimesso mano alle vecchie tavole per renderle maggiormente appetibili a quel pubblico che gli aveva già acquistato le "Vedute di Roma" e le "Magnificenze di Roma". Già da qualche secolo questa è una pratica comune tra i pittori.

Ma ci piace pensare che ci sia anche un’altra ragione. Piranesi spesso si mostra apertamente contraddittorio: c’è contraddizione tra ciò che egli scrive e ciò che egli disegna, tra ciò che egli mostra e ciò che egli vagheggia. Questa contraddittorietà probabilmente gli deriva da una profonda insoddisfazione verso un modo imperante di fare architettura che si basa quasi esclusivamente sull’uso pedissequo ed imitativo degli stilemi del passato.

Piranesi avverte la necessità di una rifondazione, ma non specifica come perseguirla, e con quali mezzi; l’architetto deve potere agire in piena libertà, piegando le regole secondo il proprio gusto e in base alle proprie esigenze. Il giudizio sulla grandezza di un architetto dipende quindi esclusivamente dal gusto che questi ha dimostrato di possedere.

Tafuri appare categorico, quando afferma che Piranesi "riconosce la presenza della contraddizione come realtà assoluta. E non ci si chieda di quale contraddizione. Gli strumenti del suo lavoro escludono una tale specificazione, raggiungendo livelli di astrazione che permettono interpretazioni molteplici".(M. Tafuri, op. cit., p.74)

Di sicuro Piranesi non intende fondare possibilità alternative: "nella crisi si è confitti" (M. Tafuri, op. cit., idem), ed è già una grande cosa il potere accogliere questo destino.

Tornando alle Tavole della seconda versione, si osserva che queste contraddicono i risultati della versione precedente: salvo che in pochi casi isolati, si assiste ad una vera e propria trasformazione degli spazi disegnati. Gli spazi si fanno più complessi e ambigui. I vecchi obelischi lasciano il posto a rampe fortemente inclinate, le gradinate mutano direzione, compaiono lapidi con scritte in latino, gli attrezzi di tortura si moltiplicano; spariscono edifici, ed al loro posto appaiono arcate, ponti, torrette. Viene plasmata una nuova realtà, come dopo un folle bombardamento.

Resta immutata l’atmosfera, inimitabile, inquietante, ipnotica... Anzi, le immagini si fanno ancora più severe. La luce colpisce con maggior decisione le superfici, il chiaroscuro è accentuato: luce ed ombra entrano in forte competizione aggiungendo drammaticità all’insieme.

E l’uomo che ruolo occupa in tutto ciò? Oltre ai prigionieri incatenati, oppure torturati, si assiste ad uno strano andirivieni di persone. La vita non si svolge soltanto nelle segrete. Viene quasi da pensare ad un orribile destino che accomuni i condannati e i loro sorveglianti: vagare senza sosta, giorno e notte, per questi luoghi illimitati. Spesso le persone indicano qualcosa, si fermano in piccoli crocchi, forse a raccontarsi le cose viste nel girovagare all’interno di questo enorme spazio...

Carcere come labirinto, come oggetto che incute terrore in quanto non razionalizzabile, non comprensibile, non mappabile, forse neanche mentalmente. Altra contraddizione piranesiana: mentre l’autore allude "all’austerità e all’organicità dell’architettura etrusca e romana", gli organismi frutto della sua immaginazione rivelano "planimetrie in cui domina la casualità degli episodi, l’intrecciarsi privo di leggi delle sovrastrutture".(M. Tafuri, op. cit., idem)

Come ha acutamente osservato Patricia May Seckler, Piranesi attua la "distruzione e la sostituzione di ciò che l’osservatore è portato a credere e a supporre... Il pensiero è sconfitto nel suo tentativo di razionalizzare l’irrazionale". (P.M. Seckler, G.B. Piranesi's Carceri: Etchings and Related drawings, in "The Art Quarterly", XXV, 1962, n.4, p.335)

Eppure, per non impazzire, gli abitatori delle Carceri devono tentare di ricostruire la realtà in cui sono immersi... Un esercizio mentale cui è obbligato anche l’osservatore esterno, alla ricerca di un centro focale che sfugge, che trasla di continuo, spostandosi sempre più verso l’infinito.

L’uomo soccombe, prigioniero di cose più grandi di lui: soccombe l’umanità dell’uomo, quella dei condannati. Vincono le macchine di tortura, le architetture, gli spazi illimitati. E c’è il pericolo - paventato anche da Tafuri - che il viaggio di scoperta che attende l’osservatore venga effettuato con un biglietto di sola andata, in quanto "Una volta iniziato il viaggio, il percorso a ritroso diviene impossibile".(M. Tafuri, op. cit., idem)

Noi siamo meno pessimisti, anche se in misura relativa: il ritorno è possibile, ma se dovessimo un giorno decidere di tornare a rivedere quel carcere che abbiamo già visitato, lo troveremmo trasformato, diverso dall’immagine presente nella nostra memoria.

E forse sentiremmo riecheggiare da lontano una beffarda risata...